A Ciampino le salme dei soldati  accolte dalle famiglie e dai commilitoni

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A Ciampino le salme dei soldati accolte dalle famiglie e dai commilitoni

20 Settembre 2009

Cielo plumbeo, coda di una notte di intensa pioggia. Traffico scorrevole, quello di una domenica mattina di settembre. Già dal piazzale antistante l’aeroporto di Ciampino, però, ci si accorge che non è una domenica come tante. Troppa polizia e troppi carabinieri per essere una giornata qualunque.
All’ingresso dell’aeroporto militare uomini in mimetica e basco blu dell’Aeronautica smistano le auto: unico ingresso, percorsi diversi. Per i giornalisti è stato riservato un parcheggio che permette l’ingresso alla sinistra della pista di atterraggio, l’area a loro riservata.

L’atmosfera è di compostezza. Le telecamere sono già piazzate. Tutte guardano verso quella pista d’atterraggio ancora vuota, dove ogni tanto atterra qualche aereo civile. Si parla a voce bassa, ci si muove con cautela. Anche accendere una sigaretta per ingannare il tempo sembra una mancanza di rispetto. Proprio dietro l’area riservata alla stampa c’è un gruppo di parà. Inconfondibili con il loro basco amaranto. Hanno lo sguardo basso. Parlano tra loro. Aspettano. Non ci vuole molto per capire che sono i ragazzi del 186° reggimento Paracadutisti. Sono venuti da Siena per accogliere i loro compagni.

Ciò che non si capisce subito, invece, è che toccherà proprio a loro portare a spalla le sei bare. Andranno loro stessi a prenderli dalla pancia del C130J dell’Aeronautica su cui stanno viaggiando, e li accompagneranno fino ai carri funebri che, già pronti, aspettano, allineati, sulla destra della pista. Lo si capisce solo quando compaiono, in mano a sei di loro, dei cuscini rossi. Sopra a ognuno c’è un basco amaranto ben piegato. E poi medaglie e decorazioni.

Tra l’area riservata alla stampa e i carri funebri allineati, in corrispondenza dell’accesso principale alla pista, c’è un corridoio che deve essere lasciato libero. Da lì, tra poco, passeranno le autorità politiche e militari che andranno ad accogliere i sei feretri. Ma soprattutto da lì passeranno i familiari dei sei parà morti giovedì scorso a Kabul. Sono arrivati ieri. Hanno passato la notte a Roma. Sono venuti a riprenderseli. Finita la cerimonia, i corpi dei sei ragazzi verranno portati all’Istituto di medicina legale per l’autopsia. Poi la camera ardente per l’ultimo saluto, al Celio. Alla fine, ognuno si dirigerà verso la propria regione, città, paese.

La pista inizia a popolarsi. Arriva il picchetto d’onore dei parà, e poi rappresentanze di tutte le forze armate e corpi vari: dalle crocerossine ai veterani. Ognuno, compostamente, occupa il posto che gli è stato assegnato. Il piazzale è ormai guarnito con tutti i colori di tutte le uniformi. Quello predominante però è il verde oliva dell’esercito. E quello rosso dei baschi amaranto.

Ore 9.30. Nasi in aria e sguardo fisso: nel cielo inizia a profilarsi la sagoma del C130J che tutti stanno aspettando. Le voci e i brusii si smorzano. Chi deve parlare lo fa sussurrando. Mentre l’aereo fa manovra per tornare indietro e posizionarsi, entrano sulla pista le autorità politiche. Dietro, poco dopo, alla spicciolata, i parenti dei sei militari morti in Afghanistan. Alcuni di loro camminano lentamente. Altri vengono sostenuti. Sguardi bassi, sull’asfalto, o fissi davanti a loro, su quell’aereo che sta aspettando là in fondo per restituirgli i corpi dei loro ragazzi.

I quaranta paracadutisti che aspettavano in fondo a sinistra si muovono e, in formazione, si dirigono verso il portello anteriore del velivolo. Passeranno da lì per entrare nella pancia dell’aereo, caricarsi a spalla quel peso reso insostenibile dalla pena e portare fuori i loro compagni dal portellone posteriore.

Quando compare la prima bara, avvolta nel tricolore, scende il silenzio sulla pista. Silenzio rotto solo dal rumore delle macchine fotografiche dei reporter.

Una, due, tre, fino a sei. Vengono allineate sul piazzale. Dalla fila a destra si stacca il cappellano militare che impartisce, a una a una, la benedizione. Poi, è il momento del saluto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sfila davanti alle bare, si ferma davanti a ognuna, alza il braccio destro e appoggia la mano, per qualche secondo, su ognuno di quei tricolori che avvolgono i feretri. Un gesto della testa che è contemporaneamente un inchino in segno di rispetto e un saluto affettuoso. Quasi da padre. Prima di riprendere il suo posto, in testa alla fila a destra delle bare, si ferma e tributa un ultimo saluto, un ultimo inchino. A tutti e sei.

Pochi istanti di silenzio e poi un grido sale dalla fila opposta: “Folgore!”. È il saluto dei commilitoni, quel saluto, gridato con tutta la voce che si ha in gola, che così tante volte si sente fare ai militari in basco amaranto. Un simbolo di distinzione e, allo stesso tempo, di aggregazione. Un grido che anche il capitano Antonio Fortunato, il sergente maggiore Roberto Valente, il caporal maggiore capo Massimiliano Randino e i caporal maggiori scelti Davide Ricchiuto, Giandomenico Pistonani e Matteo Mureddu avranno ripetuto tante e tante volte.

Una tromba intona le note del “silenzio”, tutti i militari presenti, ufficiali e truppa, si mettono sull’attenti. Poi, quando le note si spengono, le bare iniziano a sfilare. Davanti alle autorità politiche. E poi davanti alle famiglie. Ed è proprio da lì, da quel gruppo così eterogeneo, che la cattiva sorte ha voluto riunire qui questa mattina, che esplode l’applauso. Qualcuno, da quello stesso gruppo, grida qualcosa. La voce è quella di un uomo, le parole sono indistinte, ma il tono è quello sì di un saluto ma anche di un’espressione di orgoglio. E di condivisione e sostegno per quella scelta che questi ragazzi hanno fatto qualche tempo fa. E che hanno portato fino in fondo. Fino alle estreme conseguenze.

Sfilano le bare. I volti seri dei commilitoni che le trasportano non riescono a nascondere la commozione. Si dirigono verso i carri funebri che, intanto, hanno aperto i portelloni posteriori. Dietro, ad accompagnarle, i parenti. I volti sono trasfigurati, ma l’atteggiamento è di compostezza e grande dignità. Le mamme, sostenute, stringono in petto le foto dei figli. Piangono, farfugliano parole di dolore. E di delirio per una morte improvvisa, le cui ragioni sono troppo distanti da una madre. Li seguono le autorità politiche e militari. Distanti, perché sta per terminare il momento delle celebrazioni. Tra poco inizierà quello del dolore privato.

La fila dei sei feretri si divide. Ognuno viene portato davanti al carro funebre che li porterà via. E si divide anche il gruppo dei parenti, amici e conoscenti. Finalmente, anche loro possono toccarle, quelle bare, piangergli accanto. Dura per alcuni minuti il pianto accorato di una mamma che non vuole staccarsi da quella bara. Lì dentro c’è suo figlio, morto violentemente lontano da casa. Che non rivedrà mai più.