Afghanistan, i generali chiedono a Obama di cambiare strategia
01 Settembre 2009
di redazione
Se l’Iraq è stata la guerra di Bush, l’Afghanistan sarà quella di Obama. Il presidente ha scommesso la sua credibilità in politica estera sulla sconfitta di Al Qaeda e dei Talebani ed è qui che sta concentrando lo sforzo bellico americano. Se negli anni scorsi gli Usa combattevano una guerra su scala planetaria, adesso, come ha detto il presidente, combattono una “necessary war” in Afghanistan. Una guerra intorno a cui si concentrano la retorica della Casa Bianca, le analisi e le strategie degli alti comandi, i suggerimenti degli esperti di contro-insorgenza, le linee-guida dei pensatoi democratici, i commenti degli osservatori sulla stampa.
Così, la primavera scorsa si è deciso di inviare sul fronte afghano un massiccio numero di rinforzi, circa diecimila uomini fra Marines e truppe della Nato, che entro la fine dell’anno si andranno ad aggiungere alle 100.000 già schierate sul terreno. Perché si tratta di una guerra lunga, logorante, e che deve essere vinta a tutti i costi. Cosa accadrebbe se l’Afghanistan si trasformasse in un pantano? Il 2009 è stato un anno pessimo per la Coalizione. Non è ancora finito e già il numero dei caduti tra le forze dell’alleanza è più alto di ogni altro anno degli 8 trascorsi dall’inizio della guerra. Per gli americani, agosto è stato il mese peggiore. Con le due vittime di ieri, i soldati Usa morti nel 2009 diventano 177.
Ieri il generale McCrystal ha detto che “La situazione è grave ma possiamo ancora farcela a patto che si operi una revisione della strategia, dell’impegno, e della determinazione, così come un migliore coordinamento fra le truppe della missione Isaf”. Nel rapporto del generale, però, non c’è traccia della richiesta di altri rinforzi – insomma, dopo il raddoppio del contingente deciso da Obama i suoi generali sembrano aver stabilito altre priorità. Gli sforzi militari della Coalizione contro i Talebani sono come le cariche di un toro smorzate dall’abilità del matador, ha detto McCrystal ricorrendo a un’efficace metafora: un nemico pulviscolare e onnipresente che mentre scriviamo piazza mine, monta autobombe, costruisce ospedali, riapre scuole coraniche, diffonde un sistema politico e giudiziario alternativo a quello delle giovani ma ancora deboli istituzioni afghane.
Per questo McCrystal vuole una revisione della strategia americana: i Talebani possono essere sconfitti solo portando dalla nostra parte la popolazione. La prova offerta dagli afghani alle ultime elezioni, andare a votare nonostante la minaccia di trovarsi con le dita mozzate, mostra che questa battaglia non è ancora persa. Ma se il nuovo governo nascerà debole come sembra, se ci vorranno anni per addestrare le forze della sicurezza afghana, e se continueranno le incursioni dei droni che fanno terra bruciata intorno ai Talebani (i droni non sono proprio una manna dal cielo per i civili), allora la determinazione degli afghani che credono nella ‘rivoluzione democratica’ inizierà a scemare più di quanto non stia già accadendo.
La bordata inflitta l’altro ieri dall’ammiraglio Mullen all’amministrazione dimostra che qualcosa non quadra nella campagna afghana. Mullen in sostanza ha detto che c’è una “certa arroganza” nel modo in cui gli Usa fanno informazione nel Paese, pagando giornalisti afghani e pakistani, stazioni radio e materiale propagandistico (150 mln di dollari stanziati da Obama), senza verificare se la conquista (dei cuori e delle menti) vada poi a buon fine. “Non basta raccontare la nostra versione della storia – ha spiegato Mullen – Dobbiamo anche essere degli ottimi ascoltatori”. I Talebani ed Al Qaeda, per esempio, fanno sempre seguire l’azione alla retorica. Diffondono i loro proclami video e poi colpiscono con le bombe o tagliando qualche scalpo. Una comunicazione perfetta.
Alcuni osservatori attribuiscono il deficit militare, strategico e operativo, delle forze americane, a quegli ambienti della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato o di altre agenzie governative che remano contro McCrystal e le sue richieste di uno sforzo militare e civile pienamente integrato, tra americani, forze della Coalizione, azioni delle Nazioni Unite e delle Ong. Obama può anche inviare altre migliaia di uomini in Afghanistan ma se questo sforzo congiunto necessario a vincere la guerra dovesse abbassarsi entro la fine dell’anno – e si tratta di uno sforzo politico, diplomatico, economico, finanziario, non solo militare –, Obama potrebbe rivelarsi un ‘presidente di guerra’ molto più fallimentare di quanto lo siano stati i suoi predecessori.
Tutto questo avviene in un momento in cui la sinistra democratica sta per voltare le spalle al suo ex beniamino. Gruppi e gruppuscoli pacifisti organizzano grandi manifestazioni di piazza per il prossimo autunno per protestare contro il surge in Afghanistan. Secondo un recente sondaggio del Washington Post-ABC New Polls, il 51 per cento degli americani ritiene che questa non sia una guerra degna di essere combattuta. Tra i democratici, sono 7 su 10. Secondo l’Economist/YouGov solo il 32 per cento degli americani ritiene che sia stato utile inviare altri uomini al fronte. Che succederebbe se, dopo la retorica dei rinforzi e della ‘grande offensiva’ in stile Vietnam, si perdesse la fiducia della popolazione afghana e quella delle opinioni pubbliche americana e occidentali?
Non si tratta di fare i disfattisti. Ciò che appare discutibile è proprio la strategia messa in piedi da Obama, l’idea di concentrare tutti gli sforzi, le attese e l’impegno degli americani sull’Afghanistan: la guerra delle guerre, la ‘guerra giusta’, combattuta con gli alleati vecchi e nuovi degli Usa, il conflitto dopo il quale Bush avrebbe dovuto fermarsi invece di invadere l’Iraq. Il problema è che Al Qaeda non è più in Afghanistan, è passata in Pakistan. E che non si trova solo da quelle parti, è anche in Somalia o dispersa in chissà quante cellule dormienti o meno.
La guerra al terrore era una definizione utile a descrivere questo cambiamento radicale nell’identità del "nemico" avvenuto dopo l’11 Settembre. Non si tratta più di vincere una guerra ma di combattere una snervante battaglia quotidiana su scala infinita. La vittoria in Afghanistan, per quanto necessaria, distorce la percezione di quanto sta accadendo realmente nel mondo. Detto questo, ovviamente, speriamo che i rinforzi arrivino, che la ricostruzione prosegua e che l’Afghanistan possa consolidare le sue istituzioni democratiche.