Afghanistan, sono gli italiani a pattugliare la maledetta strada “517”
15 Settembre 2009
di redazione
Sabato scorso un nuovo scontro a fuoco nell’area a responsabilità italiana: i Paracadutisti del 187° Reggimento, di stanza a Farah, intervengono in supporto agli americani, attaccati mentre scortano un convoglio di aiuti diretto proprio a Farah. Nessuno degli italiani rimane ferito, mentre un militare americano viene ucciso. L’intervento, condotto anche con due elicotteri italiani A-129 Mangusta, è stato definito “risolutivo”. Ieri, un aggiornamento: a causa dello scontro sono rimaste uccise anche una donna e una bambina. L’area è attualmente la più calda tra quelle a responsabilità italiana.
In mezzo, la 517,
“Prima del nostro arrivo lo scorso marzo, la 517 era praticamente chiusa. Non si poteva passare di lì perché era sotto il controllo degli insurgents”. A raccontarlo è il tenente colonnello Rodolfo Sganga, comandante del Battle Group South, vale a dire il battaglione che opera nella metà sud dell’area a responsabilità italiana. Ora quella strada viene percorsa quasi quotidianamente dai militari italiani. Non senza incidenti, però.
“Fino all’11 giugno – prosegue il ten. col. Sganga – gli attacchi erano frontali: gli insurgents organizzavano imboscate e ci fronteggiavano direttamente. Poi hanno capito che non era ‘economico’ per loro: troppe perdite e pochi danni inflitti a noi. Quindi hanno cambiato strategia: ora usano la tecnica degli Ied, gli ordigni improvvisate fabbricati artigianalmente, posti a bordo strada”.
È la guerra asimmetrica, quella che ormai si è imposta in Afghanistan. Attacchi modello “toccata e fuga”, particolarmente insidiosi per i militari Isaf, perché difficilmente prevedibili e riconoscibili. Perfetta per gli insorgenti che così non sono costretti a esporsi a una potenza di fuoco nettamente superiore. “Nei confronti delle Forze di Sicurezza Afghane, invece, la strategia è rimasta la stessa – spiega ancora Sganga – attacchi e imboscate. Ecco perché, spesso, anche noi ci troviamo coinvolti: quando esercito e polizia locali si trovano in difficoltà ci chiamano in aiuto e noi interveniamo”.
“Spesso, quando ci troviamo sulla 517, ci capita di notare frotte di donne e bambini che scappano. Gli uomini, invece, si barricano in casa e aspettano di sferrare l’attacco”. Case che sono anche state fortificate per lo scopo: i muri, pur sempre di fango, sono stati rinforzati. Le finestre sono delle piccole feritoie dalle quali sparare all’impazzata ai mezzi e agli uomini della coalizione che si trovano lì per compiere un’operazione. Senza correre un rischio troppo grande di venire colpiti.
Ecco il perché di tante operazioni a scopo umanitario, fatte in collaborazione con gli americani del Provincial Reconstruction Team con base a Farah. Ed ecco anche il motivo di una scelta deliberata, anche se particolarmente rischiosa, fatta dai militari italiani che sono qui. “Noi – spiega il comandante del Battle Group South – preferiamo difenderci con le nostre armi quando veniamo attaccati. Abbiamo sempre evitato che i bombardieri, quando sono intervenuti in nostro aiuto durante scontri anche molto duri, sganciassero bombe sui villaggi. Si tratta di una scelta molto rischiosa, ma i ‘danni collaterali’ sono una cosa che cerchiamo di evitare in ogni modo”. E, stando alle parole del ten. col. Sganga, la popolazione riconosce che gli italiani sono particolarmente attenti alla popolazione civile.
D’altronde, è ancora troppo vivo nella gente del posto il ricordo di quella notte di inizio maggio, quando, per mettere fine agli scontri in corso tra insurgents e forze afghane, gli americani bombardarono Gerani, uno dei villaggi proprio dell’area di Shewan, causando oltre cento vittime. La maggior parte erano donne e bambini.
Tutti ne parlano, tutti ricordano ancora quella giornata.
I militari italiani, insieme ai militari afghani, si sono inoltrati tra i villaggi e le case dell’area di Shewan per smantellare un deposito di armi interrati vicino al letto del fiume. Una volta giunti lì, sono stati attaccati con razzi e mortai. Uno di questi ha colpito in pieno un blindato Dardo, ferendo gravemente l’uomo in torretta, il caposquadra. “Il suo corpo – racconta il ten. col. – era ricoperto di schegge. E nonostante ciò ha continuato a impartire ordini e a guidare le operazioni”. Gli altri, intanto, incastrati dagli insurgents all’interno del villaggio, continuavano a combattere per difendersi dall’attacco. Altri ancora combattevano accanto al fiume. “All’inizio non capivamo da dove venissero i colpi. Noi eravamo in campo aperto. Forse dai cespugli che costeggiano il fiume. C’era anche un villaggio nelle vicinanze, ma lì – racconta – gli abitanti si erano affrettati a issare una bandiera bianca per evitare di rimanere coinvolti”.
Alla fine, dopo ben cinque ore di scontri, gli italiani sono riusciti a “neutralizzare la minaccia”, come si dice in gergo “militarese” e a tornare in base. Il caposquadra del Dardo è stato evacuato in elicottero dal luogo dello scontro e curato. È tornato a casa e sta bene.
Gli altri continuano a ricordare quel 25 luglio, a raccontare, a spiegare. Un modo, forse, per esorcizzare e riuscire a sostenere la tensione che provoca la convivenza con una minaccia costante.