Agli esami di maturità la Costituzione non è più la stessa. Buon segno.

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Agli esami di maturità la Costituzione non è più la stessa. Buon segno.

20 Giugno 2008

Tra i temi dati quest’anno alla maturità è stato motivo di sorpresa quello d’argomento storico-politico sui 60 anni dall’entrata in vigore della nostra Costituzione. Un bilancio dei suoi valori attuali e del suo rapporto con la società italiana. Il clima culturale sta decisamente mutando. Qualche anno fa un tema sulla Costituzione italiana sarebbe stato servito con un ricco condimento di idealità resistenziali, di coronamento istituzionale della lotta antifascista, di riconquista della Libertà dopo vent’anni di bieca dittatura etc. La formulazione sobria e antiretorica dell’enunciato è un buon segno: è scomparso il momento prescrittivo ed è il momento descrittivo a tenere il campo. Al candidato si è chiesto quali fossero, a suo parere, i <valori attuali> ovvero quali principi    contenuti nella nostra Magna Carta   accendano i cuori e le menti dei suoi  lettori–nel presupposto, corretto e realistico, che ogni testo, sacro o profano, viene sentito e recepito in modo diverso nelle varie epoche storiche—e in quale misura quei valori orientino ancora—se mai l’hanno fatto in passato—i comportamenti collettivi e gli stili di governo. Non altro può e deve essere il linguaggio di una autentica democrazia liberale e se fedeli al suo spirito, le scuole di ogni ordine e grado non cadono nell’errore di scambiare l’educazione civica col ‘catechismo repubblicano’.

L’educazione civica di una ‘società aperta’ ha come suo saldo principio <la conoscenza presa sul serio>: non pretende di impartire dall’alto ostiche lezioni di etica pubblica né di modellare tutti i cittadini su un identico stampo morale. Gli ideali, le scelte tra diversi progetti di vita, in democrazia, non presuppongono gerarchie di competenza: ciascuno è giudice e sovrano. Sennonché l’esercizio della sovranità richiede un’informazione adeguata e quest’ultima rinvia a uno specifico ethos che trova la sua serra calda e ospitale nelle aule scolastiche e nei laboratori scientifici dove gli echi del mondo giungono attutiti ed è possibile ‘porsi a distanza’ dalle passioni e dagli interessi. Le parole della scienza, ammoniva Max Weber,debbono essere <un vomere per fecondare il terreno del pensiero contemplativo>, <non spade contro gli avversari, strumenti di lotta>. E questo vale anche per  le tavole della legge di una rinata democrazia. Per parafrasare il grande pensatore tedesco, <Se vi si parlerà di ‘costituzioni’, se ne osserveranno le diverse forme, se ne analizzerà il modo in cui esse funzionano, si stabilirà  quali siano le singole conseguenze dell’una o dell’altra nella vita pratica, e poi vi si contrapporranno le altre forme  dirigistico-autoritarie o totalitarie dell’organizzazione politica e si cercherà di giungere fino al punto in cui l’ascoltatore sia in grado  di poter prendere posizione secondo i propri supremi ideali. Ma il vero maestro si guarderà bene dal sospingerlo,  dall’alto della cattedra, a prendere un qualsiasi atteggiamento, sia esplicitamente sia con suggerimenti>. I documenti legislativi e le stesse carte costituzionali non sono la Bibbia o il Corano, come pretendono certe ingannevoli metafore, bensì strumenti pratici per organizzare una pacifica convivenza civile aperta al futuro ma non sprezzante del passato.

 Non da oggi, nel nostro paese, una parte consistente dell’opinione pubblica colta e informata ritiene che la Costituzione repubblicana sia da ristrutturare non nei dettagli ma in qualche muro maestro. Lo pensavano, tanto per fare qualche nome, uno studioso, già ricordato in queste pagine, come Giuseppe Maranini, forse la mente più lucida della scienza politica italiana del secondo Novecento, e un sincero democratico ‘militante’ come Randolfo Pacciardi, una delle più limpide coscienze morali dell’antifascismo. Come viene spesso sottolineato nei manuali di educazione civica, la Costituzione italiana nasce dall’incontro di liberalismo, solidarismo cattolico e socialismo. Nel fortunato saggio, scritto per le medie superiori, di Norberto Bobbio e Franco Pierandrei, Introduzione alla Costituzione (Ed. Laterza 1982), le filosofie ispiratrici sono quattro—liberalismo, democrazia, socialismo, cristianesimo sociale—ma di fatto le prime due vengono (giustamente) assimilate.<Sinteticamente—rilevano gli autori—la Costituzione italiana è una Costituzione ispirata a ideali liberali, integrata da ideali socialisti, corretti da ideali cristiano-sociali. Nulla di ciò che costituiva il patrimonio della cultura classica è stato respinto dai nostri  costituenti |…| Ma con altrettanta sicurezza si può dire che non poteva essere più ampio il riconoscimento dei diritti sociali, espressioni di un secolo di conquiste del movimento operaio, a cominciare dalla formula iniziale, secondo cui l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro |…| L’influenza del pensiero sociale cristiano si rivela |…| già nell’art. 2 dove si dice che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia ‘nelle formazioni  sociali dove si svolge la sua personalità’>.

 Per gli apologeti, la sintesi realizzata negli articoli della Costituzione è la ragione della sua elevatissima cifra civile che, in taluni giuristi di regime si traduce in una indiscussa superiorità su tutte le altre carte europee, presenti o passate. Per i critici, all’opposto, è il suo irreparabile difetto giacché non sempre le ‘famiglie spirituali dell’Italia’, costrette dalla lotta antifascista a un matrimonio d’interesse, riescono a convivere pacificamente e a trovare un soddisfacente equilibrio.

 A ben riflettere, però, al fondo di questa diversa valutazione sta un nodo concettuale e valoriale il cui mancato scioglimento a tutt’oggi rimane fonte di equivoci e di incomprensioni. La political culture nazionale resta profondamente divisa tra le due diverse concezioni della democrazia già altre volte delineate su ‘L’Occidentale’:una concezione esigente e giacobina che la intende come strumento di elevazione materiale, intellettuale e morale delle masse e una concezione ‘umile’ e liberale, in senso lato, che la intende  come strumento di registrazione di ciò che vuole, spera o teme la gente comune.

Che si tratti di due incompatibili antropologie politiche non era sfuggito al genio di Alexis de Tocqueville che, nella Democrazia in America del 1835, ne aveva illustrato, con insuperata acutezza, la diversa fenomenologia e localizzazione storico-geografica:<  I repubblicani negli Stati Uniti  apprezzano i costumi, rispettano le credenze religiose, riconoscono ì diritti. Essi professano l’opinione che un popolo deve essere morale, religioso e moderato in proporzione alla sua libertà. Ciò che si chiama repubblica negli Stati Uniti è il regno tranquillo della maggioranza. La maggioranza, dopo che   ha avuto il tempo di riconoscersi e di constatare la propria esistenza, diviene la fonte comune dei poteri. Ma la maggioranza, di per sé stessa, non è onnipotente. Al di sopra di essa, nel campo morale, si trovano l’umanità, la giustizia e la ragione; nel campo politico, i   diritti acquisiti. La maggioranza riconosce queste due barriere e, se  le capita di superarle, è perché essa ha delle passioni, come ogni   uomo, e perché, come lui, essa può fare il male pur discernendo il bene. Ma, in Europa, noi abbiamo fatto strane scoperte. La repubblica, secondo alcuni di noi, non è il governo della maggioranza, come si è creduto fino ad ora, è il governo di coloro che   si fanno garanti e interpreti della maggioranza. Non è il popolo che  dirige in questa specie di  governi, ma coloro che conoscono quale  sia il vero bene del popolo, felice distinzione che permette di agire in  nome delle nazioni senza consultarle e di reclamare la loro riconoscenza calpestandole. Il governo repubblicano del resto è il solo, al   quale si debba riconoscere il diritto di fare tutto, e che possa disprezzare ciò che gli uomini hanno fino ad ora rispettato, dalle più alte   leggi della morale fino alle elementari regole dei senso comune. Si era pensato, fino ad ora, che il dispotismo fosse odioso, qualunque fossero le sue forme. Ma si è scoperto ai giorni nostri che vi. erano nel mondo tirannidi legittime e sante ingiustizie, purché fossero esercitate in nome del popolo>.

 Se nell’Europa continentale <non è il popolo che  dirige, ma coloro che conoscono quale  sia il vero bene del popolo>, la spiegazione sta nel fatto che il popolo non è (ancora) ‘autonomo’, non è abbastanza educato per potere esercitare, in piena libertà e responsabilità, le sue prerogative sovrane. Di qui il bisogno di una èlite e il relativo prestigio sociale attribuito ai ‘pastori delle anime’—religiosi, come nel Medioevo, o ‘philosophes’, come nell’età moderna (oggi si direbbe maitres à pensèe). Ma di qui, soprattutto, la diffidenza della vecchia sinistra anticapitalista nei confronti delle masse, non inquadrate ed ‘educate’ nei partiti, nei sindacati, nelle associazioni dopolavoristiche predisposte dai generali delle armate proletarie.

  Nella prospettiva dell’elevazione, la sintesi liberal-cattolica-socialista—affidata a quanti godono la fiducia del popolo sovrano o almeno da esso traggono la loro legittimazione– viene ad essere, per così dire, <costituzionalizzata> sicché il ridimensionamento di uno dei suoi elementi comporta la delegittimazione etico-politica del governo che se ne faccia carico. Ad esempio, abrogare lo ‘Statuto dei lavoratori’—misura ultraliberista—o imporre, come fecero i laburisti inglesi nel dopoguerra, ai ristoranti un menu di due soli piatti—misura ultradirigista—significherebbe attentare allo spirito della Costituzione, che prevede sia la libertà dell’oste sia la protezione sociale dell’operaio.

 Nella prospettiva della registrazione,al contrario, in una società  democratica, solo le <regole del gioco> vanno blindate, mentre i <contenuti>—più liberali o più socialisti— son fatti dipendere dalle mutevoli maggioranze elettorali, che possono premiare, di volta in volta, Clement Attlee o Margaret Thatcher. In altre parole, il collocarsi più a destra o più a sinistra, è qualcosa che ricade nella sfera della legislazione ordinaria  e dei suoi mutevoli produttori, laddove, nell’ottica della democrazia educatrice, è la stessa legge costituzionale che fissa le misure che, a destra (liberalismo) e a sinistra (socialismo) non debbono venire superate. Sarebbe sciocco affermare che tale cultura meni al totalitarismo ma sarebbe una prova di grave superficialità non rendersi conto che affidare la sintesi tra i valori storicamente spesso in conflitto–libertà,eguaglianza, ordine, mercato, giustizia, sicurezza sociale etc.—alle Tavole bronzee di un testo costituzionale, sottraendola alla <vita> ordinaria ovvero al  confronto di tutti i giorni e all’enorme e mutevole transazione degli interessi che vi si realizza, significa ignorare il potenziale autoritario dei guardiani della Costituzione—ai nostri giorni, soprattutto i giuristi—che, in piena coerenza con la loro ‘ideologia’, delegittimano la classe politica e il ‘popolo bue’ che l’ha eletta  allorché non si attiene a una qualche ‘sura’ del Libro Sacro.

 Come si vede, ci si trova dinanzi a un disaccordo di fondo che non può essere minimizzato o trascurato. Tale disaccordo, che investe la Costituzione e i suoi <valori attuali>, va riconosciuto onestamente o va sottaciuto come accade in tutti i regimi autoritari e totalitari che si rispettino quando sono in gioco istanze contraddittorie e conflitti di potere non facilmente sanabili?

 Tornando al tema della maturità, se la Legge fondamentale della Repubblica italiana fosse stata presentata come la quintessenza della Democrazia, il punto d’approdo della Resistenza antifascista, la fedele trascrizione dei ‘Diritti dell’uomo e del cittadino’, allo studente sarebbe rimasto solo il commento entusiastico a riprova della sua abilità retorica ed oratoria—sulla scia dei suoi nonni obbligati, in altre camice, a commentare altre conquiste ideali, come la ‘marcia su Roma’ simbolo della ritrovata unità della patria e della rinnovata consapevolezza dei suoi alti destini. I termini secchi dell’enunciato, invece, lo hanno costretto a pensare con la sua testa, a guardarsi intorno, a chiedersi se i costituenti ci abbiano lasciato o meno un’attrezzatura giuridica in grado di fronteggiare le sfide del nostro tempo. E non è un progresso tutto questo? Qualcuno, però, potrebbe obiettare:<ma la scuola italiana è in grado di riconvertirsi a una salutare antiretorica? O non è forse vero che i professori, in gran parte figli del 68,  difficilmente lascerebbero entrare nell’aula il fantasma di Max Weber?> L’obiezione è forte e francamente non saprei cosa rispondere.