Anatomia del “leader carismatico” secondo Max Weber
19 Settembre 2009
di redazione
Da tempo una corrente di pensiero molto attiva all’interno del PdL disegna per la nuova formazione politica il modello del “partito carismatico”, fondato sull’ascendente straordinario di un leader riconosciuto e sulle capacità di una classe dirigente preparata e compatta, estratta dalle eccellenze della società civile e chiamata a irradiare il carisma del leader sul territorio. Si tratta di un partito identificato non più dall’ideologia, ma da un programma di interventi concreti e dalla leadership di una forte personalità che spende il suo credito per realizzarli. I detrattori più irriducibili di questo modello lo accusano di essere anti-democratico, contrario se non alle forme almeno allo spirito della democrazia. In esso ravvisano il germe del populismo o addirittura di una dittatura soft.
Ma davvero l’idea del partito e del governo “carismatico” è così peregrina e scandalosa? I suoi sostenitori trovano un alleato illustre e inatteso in Max Weber. Il pensatore tedesco – filosofo, sociologo ed economista, padre nobile (ma non autore) della Costituzione di Weimar – elaborò alla fine della Prima Guerra Mondiale una teoria del governo che ravvisava nel carisma un elemento imprescindibile del potere. Nel saggio “La politica come professione”, pubblicato nel 1919, Weber sostiene che ogni forma di autorità si basa su motivazioni intrinseche, che prescindono dall’impalcatura giuridica e la condizionano, e mezzi esteriori. La motivazione intrinseca dell’autorità è talvolta la tradizione, la fede in io e nel sovrano che lo rappresenta, la fede nella Ragione e nella Legge che la incarna, più spesso è il carisma, la capacità del leader di entrare in comunicazione diretta con la gente, di acquisire ed esercitare un fascino del tutto speciale.
Senza dubbio questo meccanismo di legittimazione del potere consente pericolose aberrazioni (una delle quali la Germania del 1919 si avviava a sperimentare) ma è ugualmente all’origine di situazioni virtuose. In questo modo sono nate in Europa le grandi monarchie, seguendo questo canovaccio le più prestigiose democrazie occidentali hanno vissuto alcuni tra i loro periodi di massimo splendore. Si pensi all’epoca di Roosevelt negli Usa, a quella di De Gaulle in Francia, a quelle di Churchill, della Thatcher e di Blair in Gran Bretagna. Si pensi, magari in misura minore, a De Gasperi in Italia. Tutti questi personaggi hanno in comune una natura eccezionale, che ha giustificato agli occhi della gente il loro primato sulla scena politica: primato assoluto e inattaccabile, ai limiti della compatibilità col paradigma democratico. Almeno all’apparenza… In realtà, secondo Weber, in ogni tipo di regime il carisma è il marchio che contrassegna il vero potere. Dal sovrano antico e moderno, dal capo politico dell’antica Roma fino al “libero demagogo” dell’Italia rinascimentale e al capopartito parlamentare, cresciuto sul terreno dello Stato costituzionale tipico dell’Occidente, il carisma è il filo rosso che accomuna e giustifica ogni forma storica di leadership.
La vera particolarità del regime democratico sta nella possibilità di vagliare il carisma attraverso lo strumento elettorale, di sottoporlo a verifica sulla base degli effetti prodotti e dei risultati ottenuti. Weber è scettico sul concetto di “sovranità popolare” e disegna uno scenario in cui, al di là delle apparenze e delle regole formali, l’effettiva assegnazione del potere in democrazia avviene secondo meccanismi più subdoli e meno trasparenti delle elezioni (all’incirca gli stessi che vengono citati quando si diagnostica la crisi della democrazia occidentale). L’interferenza delle lobbies socioeconomiche, la presenza più o meno grande di corpi intermedi, la mercificazione del voto e il deterioramento del clima politico, la crescita mastodontica di burocrazie nominate dal potere politico e legate ad esso da un rapporto di dipendenza o riconoscenza sono tutte tare dell’autentico “paradigma democratico”, riscontrabili in quasi tutte le democrazie storiche. Un punto però resta fermo: la democrazia, più di ogni altro regime, mette il carisma “sotto pressione”, lo ingabbia in una serie di procedure, un sistema di pesi e contrappesi che gli rendono difficile “vivere di rendita” o esondare.
Con tutti i suoi limiti e le sue incongruenze, la teoria di Weber è ineludibile. Un punto di riferimento per quanti usano con disinvoltura la parola “carisma” e per quanti, invece, hanno remore perfino a pronunciarla. In termini generali l’analisi weberiana mostra che la leadership carismatica non soltanto è compatibile con le regole della democrazia, ma è connaturata alle dinamiche della convivenza sociale e ai processi della politica. Che oltre a un elemento razionale ( la persuasività dei programmi, l’affidabilità delle proposte) contiene un sostanziale risvolto emotivo, iscrivibile nelle categorie del fascino e dell’appetito. Applicata al caso italiano,poi, la teoria della motivazione intrinseca invita a non sottovalutare, a destra ma soprattutto a sinistra, il peso della leadership carismatica nella competizione politica. Un peso comparabile in teoria a quello di un programma serio e ben calibrato, ma enormemente amplificato nella pratica dall’esposizione mediatica e, soprattutto, di immediato riscontro. Peraltro la legittimazione carismatica teorizzata da Weber non riguarda soltanto il capo, ma si estende a tutte le istituzioni politiche. Anche la forza del Parlamento, la credibilità e la popolarità delle leggi (che è ,ovviamente, cosa diversa dalla loro efficacia giuridica ma influenza lo spirito di legalità dei cittadini) dipendono dal carisma dei rappresentanti del popolo. Quanto più il Parlamento scade da istituzione politica a istituzione burocratica, attenua il legame col corpo elettorale e rafforza quello con le segreterie di partito, si perde in lungaggini e inefficienze, tanto più viene meno la sua centralità nel sistema.
Purtroppo sulla reputazione della teoria di Weber e sul suo personale “carisma” pesa una macchia. Dalla vulgata Max Weber è considerato uno dei responsabili indiretti dell’avvento del nazismo, per tramite della fragile e ambigua Costituzione di Weimar. Un’affermazione semplicistica e discutibile… Innanzitutto il contributo di Weber al famigerato articolo 48 (che attribuiva pieni poteri al Presidente della Repubblica in caso di grave minaccia per lo Stato) va chiarito, ma più in generale la Costituzione di Weimar conteneva il germe del nazismo non più di quanto lo Statuto Albertino covasse in potenza il fascismo. In realtà il regime semi-presidenziale (o semi-parlamentare) delineato dalla costituzione tedesca mirava a contemperare le istanze rappresentative tipiche di ogni democrazia, rafforzate dalla nascita dei partiti di massa, con l’esigenza di una guida carismatica in tempi di crisi. Certo la formulazione del testo era ambigua, frutto di un estenuante compromesso, e l’art.48 sottovalutava gli effetti di una sospensione straordinaria delle garanzie costituzionali. Ma il contesto del primo dopoguerra, convulsa successione di disordini e tensioni, giustificava tanta frettolosità e apprensione.
Valutare la teoria del potere di Weber significa prescindere dalle sue (presunte) conseguenze pratiche. In questa ottica essa fornisce importanti indicazioni sul problema della leadership, che affligge in forme più o meno gravi tutte le democrazie evolute (e gli stessi organismi internazionali), e soprattutto aiuta a sfatare l’aura di tabù che circonda l’idea di “carisma” e le sue possibili applicazioni in politica.