Bush torna in Africa dove nulla è cambiato
18 Febbraio 2008
di Anna Bono
A distanza di
cinque anni il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, è di nuovo in
Africa. Nel 2003, al suo primo viaggio, era sbarcato nel continente con lo
slogan “trade, but not aid” (commercio, non aiuti), promettendo investimenti e
scambi commerciali – quindi cooperazione economica e non più mera assistenza –
e soltanto con i governi che si dimostrassero capaci di lottare contro la
corruzione, disposti ad accettare le regole del libero mercato e attenti ai
bisogni dei cittadini. Poi, però, ha fatto più o meno quel che fanno tutti in
Africa: ha disposto immensi finanziamenti in favore delle attività
assistenziali alle quali i leader africani rifiutano di provvedere e ha chiuso
un occhio, a volte tutti e due, quando i suddetti leader, anche quelli nuovi,
sui quali si era contato per invertire la rotta in Africa, si sono rivelati
corrotti e autoritari quanto il loro predecessori.
Un’indagine
svolta nel 2007 dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo
sviluppo ha rivelato che negli ultimi 30 anni i leader politici africani hanno
trasferito in altri continenti, tradotti in investimenti e conti correnti
privati, 400 miliardi di dollari sottratti alle casse statali: una media di 13
miliardi di dollari all’anno, pari al 40% degli aiuti ricevuti nel frattempo
dalla cooperazione internazionale allo sviluppo e al 7,6% del PIL continentale.
Intanto i loro paesi accumulavano un debito estero di 215 miliardi di dollari.
La Banca Mondiale ha confermato i dati: dalle indipendenze, nelle sole banche
svizzere e britanniche, sono affluiti da 20 a 40 miliardi di dollari
provenienti dall’Africa.
Ma l’ammontare
dei capitali di cui si appropriano ogni anno le leadership africane – che,
oltre ad esportare, spendono e sprecano in beni di lusso, favori clientelari e
sicurezza personale – è molto più elevato. La Commissione per i crimini
economici e finanziari istituita in Nigeria ha calcolato, ad esempio, che dal
1960, anno dell’indipendenza, complessivamente la corruzione ha privato i fondi
pubblici di qualcosa come 350 miliardi di dollari e va quindi considerata la
principale causa del mancato sviluppo del paese, da decenni primo produttore
subsahariano di petrolio.
Quanto alle
istituzioni democratiche, anche dove sono ostentate a dimostrazione di ben
meritare aiuti e sconti sul debito estero, spesso non sono che apparenza. In
Gabon, ad esempio, Omar Bongo è al potere dal 1967 (dal 1979 grazie a una serie
di contestatissime elezioni) e ha facoltà di nominare il governo e i giudici
della Corte Suprema. Yoweri Museveni, a capo dell’Uganda dal 1986, si è
candidato per la terza volta alla carica presidenziale, e ha vinto, grazie a
una molto opportuna riforma costituzionale da lui sollecitata per sopprimere la
norma che vietava ai cittadini ugandesi di ricoprire più di due volte il
mandato presidenziale. In Etiopia il premier Melles Zenawi, in carica dal 1991,
ha dovuto per la prima volta fare i conti con l’opposizione nel 2005, quando le
prime elezioni libere indette hanno scalfito la supremazia del suo partito che
fino a quel momento controllava il 99% del parlamento. Ha risolto il
contrattempo arrestando numerosi candidati dell’opposizione, incluso il
neoeletto sindaco della capitale Addis Abeba, e reprimendo nel sangue le
proteste popolari. L’elenco potrebbe continuare: dal Ciad al Kenya, dal Malawi
al Camerun.
Anche i cinque
stati che il presidente Bush ha scelto di visitare in questi giorni – Benin,
Tanzania, Rwanda, Ghana e Liberia – non sono esenti dai mali endemici che
affliggono il continente africano benché, al confronto di quanto succede
altrove, appaiano prodigi di trasparenza e impegno democratico. Di sicuro lo è
la Liberia, l’ex ‘Svizzera africana’ uscita letteralmente in macerie da una
cruenta guerra civile durata 14 anni e ora affidata alle buone mani della prima
donna eletta presidente in Africa, Ellen Johnson-Sirleaf. Uno dei suoi primi
atti, all’indomani dell’insediamento al potere nel gennaio del 2006, è stato la
costituzione di una commissione incaricata di verificare la gestione dei fondi
pubblici del governo precedente, con mandato di indagare sull’operato di tutti
gli organismi pubblici e le agenzie governative: in attesa dei risultati, ha
ordinato ai funzionari e ai membri del governo e del parlamento uscenti di non
lasciare il paese. Subito dopo si è fatta portare al ministero delle finanze
dove ha licenziato l’intero personale reputando inaccettabili i criteri fino ad
allora usati per le assunzioni.
Non altrettanto
bene vanno le cose, invece, in Tanzania dove Bush si è recato per
sottoscriverne l’ingresso ufficiale nella Millenium Challange Corporation,
un’agenzia federale americana nata quattro anni fa che assegna aiuti allo
sviluppo a governi che abbiano dato prova di buon governo e di interesse per il
bene collettivo. Al suo arrivo, nelle strade di Dar es Salaam, l’ex capitale,
dei dimostranti hanno protestato incendiando bandiere americane e scandendo
slogan che lo definivano un ‘criminale’. Ma soprattutto la sua visita cade in
un momento infausto perché il 7 febbraio un caso di corruzione, che vede
coinvolti il primo Ministro, il ministro dell’Energia e il ministro della Cooperazione
con l’Africa Orientale, ha costretto il governo alle dimissioni. Di
incoraggiante, almeno, è il fatto che il nuovo premier, Mizengo Pinda, abbia
deciso di portare i ministri da 29 a 26 e a ridurre in tutto i componenti del
Gabinetto da 61 a 47.