Cari Repubblicani, in vista delle primare, leggete questo pentalogo

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Cari Repubblicani, in vista delle primare, leggete questo pentalogo

25 Novembre 2011

Appello – accoratissimo – a tutti i Repubblicani – statunitensi – in ascolto – se mai ve ne sono – in vista del duro, durissimo anno di primarie che li attende. Anzi, un pentalogo.

1) Il teatro della primarie è da sempre – per definizione e fisiologia – il luogo dello scontro, dove non ce ne si risparmia nemmeno una, e dove i coltelli per tempo affilati vengono affondati nelle carni con freddezza glaciale e molto studio. Ci sta. Nessuno scandalo nel vedere candidati simili – più che simili –, spinti da programmi elettorali quasi fotocopiati uno dall’altro, che si azzannano come belve in gabbie troppo strette.

Il segreto dei segreti, però, è che, dopo queste disfide all’ultimo sangue, poi si fa quadrato sul designato ultimo per lo scontro finale, su chi la spunta, su chi vince la nomination. Ci si stringe tutti a coorte, si sostiene il candidato alle presidenziali, ci si rimangiano tutte le contumelie di cui si è vissuti prima con la faccia più tosta che ci sia, si definisce pubblicamente “santo” chi solo poco prima si bollava come “dannato”.

Solo così il teatro delle primarie non scade in teatrino della bassa politica. Solo con questo utilitarismo arrogante si vincono le elezioni; solo con questo cinismo scientifico si difendono le ragioni etiche più nobili e meno negoziabili.

Insomma, fate pure cari Repubblicani candidati alle primarie: fate pure per i mesi che vi sono dati a disposizione, ma poi tornate a venerare l’”undicesimo comandamento” del partito, istituito a suo tempo da Ronald Reagan (1911-2004): “mai parlare male di un fellow Repubblican”.

2) Attenti al divide et impera. Il nemico che sta alle porte, il barbaro che preme da fuori va a nozze nel mettere gli uni contro gli altri. Attenzione a non confondere la tattica del nemico con la doverosa strategia delle primarie: non sono affatto, mai, la medesima cosa.

3) Non tornate a scordarvi del popolo. Della vostra constituency, vera o presunta, leale o sub condicione che sia. Si chiama movimento conservatore da sempre, oggi ha il volto dei Tea Party. Non è gente facile, ma schietta sì. Il che significa anche che sa fiutare l’odore del bruciato a miglia di distanza. Non di solo conservatorismo vivono le vittorie elettorali Repubblicane, è vero: ma per certo ogni e qualsiasi sconfitta del Grand Old Party registra vistosamente l’assenza dei conservatori. Piacciano insomma o no, quelli sono numeri e voti che fanno la differenza. Chiedono solo scambi equi e solidali: impegnatevi, voi Repubblicani, a difendere con trasporto ciò che a quel mondo sta più a cuore, e nell’urna non avrete mai più rivali.

4) Oggi come oggi Barack Hussein Obama e i suoi corifei hanno tutte le carte in regola per perdere. Non dimenticate di esibirle al momento giusto, non scordatele nel cassetto, evitate che la loro magistrale astuzia le trasformi retoricamente da prove a loro carico nella mano del vostro pubblico ministero politico-culturale a prove a discarico sul palmo dei loro avvocati.

5) Ciò detto, tutto questo convenuto, quanto sopra appurato e stabilito, meditate tre volte il dì sulla profondità di una intuizione che fu di uno dei grandi padri e pionieri della Destra statunitense contemporanea, ex trozkysta duro e puro, ebreo ateo, finito prima conservatore e poi, sul letto di morte, cattolico, noto per essere stato l’ideatore del cosiddetto “fusionismo”. Osservava infatti Frank S. Meyer: «Viviamo nel mezzo di una rivoluzione diretta a distruggere la civiltà occidentale. Per definizione, i conservatori sono i difensori di quella civiltà; e in un’epoca rivoluzionaria ciò significa che essi sono, e debbono essere, controrivoluzionari».

God bless America.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.