Con il vertice di New York Obama cerca di riavvicinarsi a Netanyahu
22 Settembre 2009
di redazione
I discorsi di Obama vanno letti parola per parola. E quello pronunciato ieri a margine dell’incontro con il premier Netanyahu e il presidente Abu Mazen si concentra intorno alla definizione restrain, "contenimento". E’ l’indicazione di un possibile cambio di marcia nei rapporti della Casa Bianca con Israele. Una prima dissimulata presa di distanza dall’Autorità Palestinese.
Il contenimento si riferisce alla costruzione di nuovi insediamenti israeliani nei territori palestinesi, ma se guardiamo alle dichiarazioni della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato dei mesi scorsi di questa parolina magica non c’era traccia. Gli Usa avevano chiesto a Israele un "congelamento completo", rafforzando di fatto la posizione dell’ANP. Il segretario di Stato Clinton si era opposta con forza alla tesi della “crescita naturale” degli insediamenti avanzata da Netanyahu. Forse per questa totale discrepanza d’intenti tra i due o tre contendenti, il portavoce della Casa Bianca Gibbs l’altro ieri aveva detto: “non abbiamo grandi attese per il meeting”.
Obama invece è pronto ad accettare un contenimento, il che potrebbe significare che gli Usa sono disposti a far proseguire la costruzione di qualche migliaio di nuove case dei “settlers” nella West Bank, se Israele si impegnasse a bloccare qualsiasi altro progetto di espansione nell’immediato futuro. Gerusalemme Est è un discorso diverso: l’estate scorsa la Casa Bianca aveva chiesto di fermare il piano per riconvertire un vecchio albergo nella parte araba della città santa – una ex sede dell’OLP dove abitavano da anni alcune famiglie palestinesi – in 20 nuovi appartamenti per israeliani. In quella occasione, Netanyahu disse rivolgendosi al suo gabinetto: “Gerusalemme non è un insediamento, e non c’è niente da discutere sul suo congelamento”. Davanti a a questa intransigenza, il presidente americano sembra aver ammorbidito la sua posizione – spingendo nell’angolo Abu Mazen che a questo punto resta il solo a pretendere un blocco totale.
Ci sono diversi fattori che spiegano l’uscita di Obama, legati al governo israeliano e al peso della comunità ebreo-americana negli Stati Uniti. L’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), la lobby odiata dai giudeofobi di mezzo mondo, difende lo status quo e ha fatto pressioni in patria affinché Obama non mettesse in difficoltà Netanyahu. Lo scorso agosto una delegazione americana in Israele, guidata dal leader della maggioranza democratica alla Camera, ha fatto sapere ai cronisti che considerava un errore definire la questione degli insediamenti una key issues, e che c’è una “differenza significativa” tra la Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Figure chiave della vita politica americana e importanti fundraiser del partito, insieme ai supporter di Israele nei media, hanno svolto un ruolo determinante nel ricordare a Obama che cos’è la “special relationship” tra gli Usa e l’alleato ebraico. Oggi il presidente americano gode della fiducia di appena il 4 per cento degli israeliani. Per molti di loro è un amico degli arabi, come ha dimostrato nel suo discorso al Cairo. La maggioranza degli esperti israeliani concorda che la priorità dell’amministrazione Usa è di fare pressione sullo stato ebraico per costringerlo a evacuare gli insediamenti illegali.
Ma Obama ha di fronte a sé una coalizione, quella di Netanyahu, ampiamente favorevole allo sviluppo degli insediamenti, e di un colore politico opposto alla sua. Il premier israeliano ha fatto costruire nuove unità abitative definendole “un’impresa sionista” ed ha chiamato i settlers “nostri fratelli” (prima di partire, i settlers hanno protestato sotto i suoi uffici). Allo stesso tempo, la destra israeliana si sta adoperando per una “pace economica”, ha ridotto la pressione e i blocchi sulla Cisgiordania, ed ha favorito l’ultimo congresso di Fatah terminato con la rielezione di Abu Mazen. Il premier israeliano, infine, ha parlato di uno “stato palestinese demilitarizzato”.
Ora che Obama cerca di venire incontro al suo alleato storico, Netanyahu potrebbe rafforzarsi all’interno del suo stesso schieramento, rispetto a quelli che minacciano di far cadere il governo se dovesse fare concessioni troppo dolorose agli avversari. La concessione, viceversa, l’ha fatta Obama e Netanyahu può ripartire in contropiede. Se bloccherà le nuove costruzioni non sarà costretto a ordinare il ritiro forzato degli oltre 300.000 ebrei che vivono in Cisgiordania, almeno non per il momento. C’è chi dice che se lo facesse rischierebbe la vita come Rabin.
Israele esce rafforzato dal Trilaterale e il contenimento, in fondo, rappresenta una discreta prosecuzione delle promesse strappate a suo tempo da Israele a George W. Bush. Fotografie a parte, questo vertice è servito almeno a qualcuno. A Netanyahu sicuramente.