Con Salinger scompare la fiducia degli Usa in un’idea “minima” di felicità
28 Gennaio 2010
Ieri è stata una giornata così, piovosa, di quelle che non sai bene che fine farai, fino a quando sono tornato a casa e ho scoperto che Salinger è morto. Di fronte a questa notizia tutte le bubbole della vita quotidiana sono svanite in un colpo solo, perché Salinger era uno di quelli che fanno saltare il banco e con lui se ne va un pezzo di America coraggiosa che abbiamo amato e con cui siamo cresciuti.
Oggi i coccodrilli della stampa probabilmente si riempiranno di omaggi al Salinger “uomo”, lo scrittore che a un certo punto decise di sparire, sfuggendo alla notorietà e alimentando un’epopea di storielle e frottole sulla sua misteriosa vita privata. Invece sarebbe più giusto ricordarlo per il suo stile, che la nostra critica letteraria ha già archiviato nella categoria del “minimalismo”, ovvero – per chi conosce solo superficialmente e per sentito dire la letteratura americana – una scrittura “semplice”, spoglia e fin quasi disadorna, mentre invece, dal Il giovane Holden a gemme come Fannie e Zooey, sappiamo essere la più nobile e difficile delle arti, quella di dire cose complicate in modo semplice (come faceva un altro grande assente, Raymond Carver).
Anche in Italia ci sono autori in debito con Salinger. Da quel Luigi Meneghello che nel ’64 pubblica I Piccoli Maestri dopo aver letto in inglese Holden prima che il romanzo uscisse in Italia, al Gianni Celati onirico e fantasioso del Lunario, fino ai più giovani Pier Vittorio Tondelli e Andrea De Carlo (quello degli esordi, di Treno di Panna). La lezione americana di Salinger per noi italiani sarà quindi quella di un’America delle nuove generazioni sempre fiduciosa delle sue scelte e pronta ad affrontare delle sfide – la fiducia in una idea minima, ma vitale, della felicità.