Contro l’Iran è interesse degli arabi aiutare gli Stati Uniti
03 Agosto 2007
di redazione
Martedì 31 luglio a Sharm el-Sheikh , al termine del summit
tra i sei ministri degli Esteri dei paesi del Golfo, Egitto e Giordania, il
segretario americano alla Difesa, Robert Gates, ha dichiarato alla stampa: “E’ chiaramente
diffusa […]nella regione la preoccupazione che gli Stati Uniti si ritireranno dall’Iraq
precipitosamente o comunque in maniera
tale da destabilizzare l’intera regione”.
Mercoledì 1° agosto, Gates e il segretario di Stato,
Condoleezza Rice, hanno poi tenuto incontri al vertice in Israele. In aggiunta,
dopo le critiche mosse all’Arabia Saudita dall’ambasciatore americano a Baghdad,
Zalmay Khalilzad, per la mancanza di costruttività nel suo impegno in Iraq, i
sauditi hanno annunciato che prenderanno parte a una conferenza regionale con
Israele da svolgersi il prossimo anno e che stanno considerando la possibilità
di ristabilire normali relazioni diplomatiche con l’Iraq.
La missione della coppia Rice-Gates, in altre parole, ha
messo in luce la distanza tra la vecchie strategie e le nuove realtà, insieme
alle timide correzioni apportate per ridurre il gap. Da un lato, i paesi arabi
a predominanza sunnita hanno fatto fronte comune nel timore dell’ascesa dell’Iran
e per questo chiedono agli Stati Uniti di non fare i bagagli dall’Iraq, concedendo
a Teheran l’opportunità di riempire il vuoto di potere che si verrebbe a
creare. Dall’altro, questi paesi stanno procedendo ad aggiustamenti meramente tattici
delle loro politiche al fine di ridurre le critiche rivolte alla loro condotta,
senza tuttavia apportare cambiamenti sostanziali nella loro tradizionale impostazione
di fondo che possano andare contro i propri interessi.
Tale atteggiamento è ancor più palese nel caso del conflitto
arabo-israeliano. Va ricordato che sono stati i paesi arabi, e non i
palestinesi di per sé, a generare il conflitto. Sono stati loro a fomentare gli
animi degli estremisti palestinesi già prima della nascita dello stato ebraico,
invadendo Israele nel 1948, e poi creando l’Olp nel 1964, dopo che Gaza, la
Giudea e la Samaria erano finite nelle mani di Egitto e Giordania.
Per sessant’anni, comprese le fasi culminanti del processo
di pace alla metà degli anni Novanta, la gran parte dei paesi arabi ha condotto
una guerra diplomatica ininterrotta contro Israele, insistendo con il
boicottaggio commerciale e politico. Giusto qualche mese fa, ad esempio, gli
arabi, dissociandosi dall’opinione generale, si sono opposti all’adesione di
Gerusalemme nella Croce Rossa Internazionale, per quanto gli fosse stato richiesto
di accettare l’inclusione allo stesso tempo d’Israele e della “Palestina” in
quella che è un’organizzazione puramente umanitaria.
Questo atteggiamento è tristemente anacronistico. La nuova realtà,
infatti, dimostra che il rifiuto oltranzista dello stato ebraico si è scagliato
come un boomerang proprio contro gli arabi stessi. L’Iran è riuscito a strappare
la leadership del fronte antisraeliano, che oggi è composto principalmente da
alleati di Teheran – Siria, Hezbollah, Hamas e Al Qaeda. L’impossibilità, solo presunta,
di negoziare nel conflitto arabo-israeliano serve direttamente gli interessi
iraniani, e quindi minaccia direttamente i paesi arabi a predominanza sunnita.
Gli arabi non possono pretendere di avere tutto. Vogliono
che gli Usa abbiano la meglio contro l’Iran, anche se gli americani sono demoralizzati
e distratti dalla guerra in Iraq e dal conflitto arabo con Israele. Non possono
pressarli affinché prendano l’iniziativa, senza muovere un dito per rimuovere
gli ostacoli all’azione americana di cui essi stessi sono per lo più causa e
che certamente è nelle loro facoltà abbattere.
Inoltre, per essere d’aiuto e non d’intralcio agli Stati
Uniti in Iraq, i sauditi e il resto degli arabi dovrebbero prendere seri provvedimenti
per reprimere il mostro che hanno creato e continuano ad alimentare: il
conflitto arabo-israeliano appunto. Partecipare a una conferenza può anche
essere una buona cosa, ma quel che importa è la sostanza. Tra i gesti più concreti
e risolutivi che gli arabi possono compiere, allora, troviamo la fine della guerra
diplomatica contro Israele e dei boicottaggi commerciali illegali, la lotta al
crescente antisemitismo nei loro paesi e il dire apertamente ai palestinesi che
il “diritto al ritorno” dei profughi potrà solo avvenire in un futuro stato palestinese
e non in Israele.
Nessuno di questi gesti dovrebbe essere visto come una concessione
di lungo periodo; piuttosto, si tratta di misure basilari da prendere nell’immediato.
E’ il minimo che può essere fatto per invertire l’attuale corso negativo degli
eventi che favorisce l’Iran, in modo da orientarlo verso la giusta direzione:
gli Stati Uniti. L’Egitto e il resto dei paesi arabi possono continuare a
lamentarsi quanto vogliono dell’Iran e a convincere l’opinione pubblica della sua
minaccia, ma ciò non ha senso se non si prendono pure iniziative concrete che
aiutino materialmente gli Stati Uniti e l’Europa a puntare l’obiettivo dove
dovrebbe essere puntato, ovvero sull’Iran.
Mosse più coraggiose da parte di americani ed europei verso Teheran
aiuterebbero gli arabi a imboccare una strada più costruttiva – molto più che le
ingenti forniture di armamenti -, dal momento che più gli Stati Uniti hanno la
percezione di essere dalla parte dei vincitori, più gli arabi si sentono
incentivati a gettare il cuore oltre l’ostacolo e dare il loro supporto. I
paesi arabi, in ogni caso, dovrebbero comprendere che con la loro esitazione
perderebbero molto più in caso di vittoria iraniana che nel caso in cui fornissero
aiuto agli Stati Uniti a uscire dall’attuale situazione di semi paralisi.
© Jerusalem Post del 1° agosto 2007