Così la pandemia, invece di risvegliarlo, ha rimosso il senso del sacro

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Così la pandemia, invece di risvegliarlo, ha rimosso il senso del sacro

18 Aprile 2021

E’ uscito questi giorni in libreria “Strada facendo – In cammino lungo i sentieri dell’Italia di mezzo” (Ed. Rubbettino), di Gaetano Quagliariello. Un libro sul “cammino”: il cammino di una generazione tra Sessantotto e “mondo nuovo”, il cammino di quattro viandanti, il cammino dell’Italia di mezzo. Ne pubblichiamo un estratto.

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Emil Cioran ha sostenuto che camminare chiarisce le idee e, soprattutto, «impedisce di lambiccarsi il cervello con interrogativi senza risposta, mentre a letto si rimugina l’insolubile fino alla vertigine». Un cammino ne è la prova: quando si finisce una tappa, stesi su un giaciglio di fortuna, prima di prendere sonno, la mente corre nei territori dell’insondabile. Il mattino dopo, però, quei pensieri pesanti svaniscono – al massimo ne resta qualcuno, stipato nel retrobottega dei dubbi esistenziali che ognuno di noi coltiva – per lasciare spazio alla leggerezza dei proponimenti e, qualche volta, persino alle intuizioni fulminanti.

Uno dei pensieri pesanti piombatimi nella mente sul cammino di Santiago, mentre mi rigiravo nel sacco-lenzuolo chiedendomi se la mattina dopo ce l’avrei fatta a rimettermi in marcia, è stato grosso modo il seguente. Per secoli, prima dell’invenzione del motore, gli uomini si sono mossi da un luogo all’altro come io stavo facendo in quei giorni: chi avesse avuto un commercio, una relazione, un lavoro che gli imponesse uno spostamento, avrebbe dovuto affrontare il tragitto a piedi. Al più in compagnia di un quadrupede, come in alcune riprese de La via lattea, il film che nel 1968 Luis Buñuel dedicò al cammino di Santiago, o come fece Pietro da Morrone per scendere dal suo monte e raggiungere la basilica nella quale sarebbe stato incoronato Papa. A quel tempo non c’erano né telefoni né telefonini, non si poteva controllare il meteo su 3B, non avevi Okitask in grado di alleviarti un improvviso dolore. Più semplice, soprattutto più spontaneo, quasi naturale di fronte all’imprevedibile, appellarsi al cielo magari con una preghiera.

Oggi questa dimensione, questa religiosità naturale, si trova a fronteggiare concorrenti e succedanei assai potenti. Anche quando è spontaneo, il sentimento religioso è meno immediato di quello dei viandanti dei secoli passati. La fede, insomma, ha bisogno di guadagnare un rapporto più intimo con la ragione. Certo, di percepire la distinzione “erasmiana” tra terra e cielo c’è bisogno oggi quanto ieri: oggi, forse, persino ancor più di ieri. Senza quella distinzione, senza la dimensione trascendente, diventa difficilissimo salvaguardare l’intima libertà dell’uomo dalla infinita e fatale presunzione insita nell’onnipotenza scientista. Ma questo bisogno di trascendenza va oggi tematizzato, spiegato, proposto come “ragionevole”. Perché molti di quei salti verso l’ignoto che un tempo erano pane quotidiano e che ti proiettavano naturalmente verso il Cielo, oggi non si vivono più o, quantomeno, non si vivono con lo stesso ritmo e la stessa frequenza. Oggi tutto è di questa terra.

Questi pensieri finivano per corroborare, con quel pizzico di originalità che ti proviene dal vissuto di un’esperienza fatta “sul campo”, alcune riflessioni più serie (o forse solo più seriose), per così dire di lungo corso, che sarebbero di lì a poco confluite in un libro pensato e scritto assieme al Cardinale Camillo Ruini, col quale da anni ho il privilegio e la fortuna d’intrattenere un dialogo sui temi della vita pubblica e della fede (Un’altra Libertà. Contro i nuovi profeti del paradiso in terra, Rubbettino, 2020). Il libro è uscito pochi giorni prima dello scoppio dell’emergenza Covid e questa coincidenza, sebbene per la sua diffusione sia stata un disastro, mi ha riportato ai pensieri sul rapporto tra fede e modernità che in termini semplici, quasi banali, avevo concepito sulla via di Santiago.

Pensai all’inizio che la pandemia, a dispetto di tutti i prodigi della tecnica e della correlata presunzione dell’homo deus, avesse al dunque dimostrato come l’uomo del XXI secolo si sia sostanzialmente trovato, nei confronti dell’ignoto, nelle stesse condizioni del suo antenato medievale senza telefonino, previsioni meteorologiche e Okitask. Pensai che quel cataclisma che si stava abbattendo su di noi, terribile e imprevedibile, avrebbe suscitato e spiegato, meglio di ogni ragionamento, il bisogno del sacro. Che potesse esserci una inversione di tendenza, forse innescata dalla paura ma alimentata, nel profondo di ognuno e di tutti, dalla voglia di trovare l’antidoto e sconfiggerla.

Le prime esibizioni su balconi e terrazzi, per darsi forza l’un l’altro con canzoni urlate al cielo lassù, e poi la straripante ironia veicolata dalla rete con chiaro intento esorcizzante e scaramantico (un napoletano queste dinamiche le coglie meglio di altri), mi hanno inoculato i primi dubbi: forse il processo di secolarizzazione avrebbe individuato percorsi alternativi e meno impegnativi rispetto alla fede per risolvere il problema del rapporto con l’ignoto che la pandemia tornava inaspettatamente a proporre. Che poi queste soluzioni fossero o meno dei succedanei efficaci è altro discorso. E infatti, col passare dei giorni e il crescere dei contagi (e soprattutto dei morti), i balconi si sono svuotati e l’esorcismo dell’ironia ha smesso di essere praticato: vignette e battute prima si sono diradate, quindi sono scomparse del tutto dai radar.

La televisione no, quella non ha mai smesso di secolarizzare a suo modo l’emergenza: appelli di cantanti, attori che concionavano come nuovi sacerdoti, spazio ai flash mob al posto delle messe. A eccezione delle immagini indimenticabili di Papa Francesco che celebra solitario nei grigi di una piazza San Pietro immersa nella pioggia, in televisione il sacro è stato monopolio pressoché assoluto di don Matteo: con tutta la considerazione per Nino Frassica e Terence Hill, non abbastanza. Così, quando una volta alle nove di sera, quasi per sbaglio, il Cardinale Ruini è apparso sullo schermo grazie a uno spazio propostogli dal Tg2 Post, la sua immagine – e ancor più la sua parola – hanno trasmesso una sensazione di stupore persino a me che il Cardinale non avevo mai smesso di sentirlo telefonicamente. Fragile nel corpo, fuori contesto nella trasmissione, fortissimo e chiarissimo nell’argomentare su Dio al tempo del coronavirus: ho pensato che Pasolini lo avrebbe trovato sublimemente scandaloso!