Da Lampedusa a Ciudad Juarez, il rischio non è (solo) l’immigrazione clandestina

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Da Lampedusa a Ciudad Juarez, il rischio non è (solo) l’immigrazione clandestina

16 Settembre 2014

Il poroso quanto pericoloso confine tra El Paso e Ciudad Juarez, tra gli Usa e il Messico, era già entrato di prepotenza nella cultura pop con The Bridge, la serie televisiva che non solo ha raccontato come poche il fenomeno del  femminicidio ma ha pure spiattellato i guai degli Usa alla frontiera meridionale, con scene indimenticabili di tunnel scavati sottoterra dai narcos per far passare armi, droga e carne umana negli Stati Uniti. Ora però Ciudad Juarez, considerata la più pericolosa città al mondo (2.500 omicidi nel 2009) torna agli onori delle cronache per l’allarme Isis.

Militanti dello Stato islamico della Siria e dell’Iraq, infatti, avrebbero deciso di puntare proprio sul Messico per pianificare attentati negli Usa, attraversando il confine e lanciando attacchi con autobombe in America. La minaccia sarebbe tale, secondo il New York Times, che il Governo Federale avrebbe lanciato il massimo "alert" rafforzando le misure di sicurezza nelle basi militari americane al ridosso del confine. Il rischio di infiltrazioni del terrorismo provieniente dall’Islamic State negli Usa ha riacceso naturalmente il dibattito tra Repubblicani e amministrazione Obama, con la Homeland Security, l’FBI e i legislatori delle aree di confine tutti uniti nel dire che gli allarmi sono ingiustificati, mentre gli oppositori del Presidente Obama continuano a usare la minaccia del terrorismo, prima l’Iran e Al Qaeda, ora l’Isis, per dimostrare che i Democrats hanno fallito le politiche di sicurezza sull’immigrazione clandestina.

Il sito Judicial Watch, in particolare, ha citato fonti della intelligence che parlano di intercettazioni radio e nelle chatroom ai confini degli Usa in cui si parlerebbe appunto di "imminenti" attacchi sul suolo americano, notizia smentita dalla Homeland Security e dal Bureau. E’ evidente insomma come negli Usa – dove non si è mai rimarginata la ferita dell’11 Settembre – la paura di nuovi attacchi del terrorismo islamico sia destinata ad incidere e non poco nei dibattiti interni sulla immigrazione; del resto non accade solo in America. Sappiamo che in Europa e, in misura minore, in Italia, c’è il rischio che i "foreign fighters" andati a combattere nella legione straniera jihadista possano ritornare nei Paesi occidentali di provenienza dopo essersi addestrati a dovere su come spargere odio e sangue nelle nostre città.

Detto ciò, sbaglia chi associa tout court l’immigrazione al terrorismo, rischiando di scatenare nuove ondate islamofobe di cui non si sente il bisogno vista la difficile situazione che l’Occidente si troverà ad affrontare sul campo per contrastare militarmente l’Isis nelle prossime settimane. Tanto più che, se pensiamo all’Italia, è piuttosto improbabile che un jihadista di ritorno dalla Siria o dall’Irak decida di rientrare in Italia rischiando la vita su un barcone che può colare a picco nel Mediterraneo, affidandosi mani e piedi alle amorevoli cure della speculazione scafista.

Ciò non vuol dire che il pericolo non esista, anzi è pure peggio: il controterrorismo americano ha fatto sapere che i miliziani dell’Isis potrebbero entrare negli Stati Uniti come fanno milioni di persone ogni anni: legalmente, sui voli commerciali. Sappiamo che le brigate del terrore dello Stato Islamico sono alimentate da alcune migliaia di combattenti europei e da circa un centinaio di americani: che cosa accadrebbe se dai loro passaporti non risultasse in modo chiaro che hanno preso un volo per la Siria? Le autorità di frontiera americane, e non solo, difficilmente capirebbero dov’erano e non riuscirebbero a fermarli alle frontiere. Come dire, forse non c’è bisogno di passare il confine a Ciudad Juarez o imbarcarsi per Lampedusa per chi vuole colpire le città americane o europee.