D’Alema sbaglia Strada
12 Aprile 2007
di redazione
Massimo D’Alema ha detto molte cose parlando alla
Camera per riferire sulle trattative che hanno condotto alla liberazione di
Daniele Mastrogiacomo. D’Alema è uno che sa fare il suo mestiere e sa cogliere
le opportunità politiche che gli si offrono per togliersi d’impaccio ogni volta
che serve. Così ha volato basso, fornendo un resoconto puntiglioso dei fatti e
cercando di mettere in primo piano la salvezza dell’ostaggio, su cui ricevere
un facile apprezzamento bipartisan.
Ma il ministro degli Esteri non è riuscito
restituire “trasparenza” ad una vicenda che è stata messa sotto i riflettori lì
dove sarebbe dovuta rimanere in ombra ed è rimasta oscura quando era utile che
fosse illuminata. I rapporti con il governo afghano, nelle fasi concitate del
rapimento, sono stati liquidati in poche, affrettate righe: “In relazione alla
collaborazione offerta alle autorità afgane, – ha detto in aula D’Alema – bisogna dire che
la collaborazione del Governo afgano, che è stata pronta nel corso di tutta
questa vicenda, è anche legata ad una valutazione circa la limitata pericolosità dei
detenuti di cui si era chiesta la liberazione, diversi dei quali presentati
come portavoce e non come forze combattenti del movimento talebano”.
Su questi due punti almeno le cose sembrano stare
in modo molto diverso da come si è accontentato di raccontarle D’Alema.
Basta citare una lunga dichiarazione di Gino
Strada il giorno dopo la liberazione di Mastrogiacomo. “Il governo afghano ci
ha messo i bastoni tra le ruote sin dall’inizio – racconta Strada sul sito di
Peacereporter – la trattativa per la
liberazione dei portavoce talebani è stata estenuante, lo sa bene l’ambasciatore
Sequi che ha speso ore e ore al telefono a litigare con ministri e funzionari
che si rifiutavano di eseguire gli ordini di Kazai, il quale per primo si è
mostrato assai poco collaborativo, per non dire peggio”. Poi Strada continua
nel suo racconto dei vari sviluppi della vicenda: “Quando Dadullah ci ha
richiamato dicendo che voleva altri tre prigionieri in cambio di Daniele o lo
avrebbero ucciso entro il tramonto, l’ambasciatore Sequi si è di nuovo
scontrato con le resistenze del governo”. Strada, pare di capire, avrebbe
voluto una specie di governo-bancomat, da cui, inserito il codice e il numero, uscivano
i prigionieri talebani richiesti.
Ma il punto è che la tesi di D’Alema ne esce a
pezzi. La “pronta collaborazione del governo afghano” è stata piuttosto un
doloroso e difficile compromesso con cui Karzai ha dovuto cedere ai mortali
nemici del suo governo per non vedersi girare le spalle dagli alleati italiani.
E se la decisione di Karzai è stata laboriosa e
non istantanea come sarebbe piaciuto a Strada è perché i prigionieri liberati
era tutt’altro che “portavoce”. Era noto prima che fossero liberati ed è stato
confermato dai fatti subito dopo. D’Alema avrebbe potuto riconoscerlo e invece
ha avvalorato la tesi che si trattasse di scartine: “È apparso chiaro fin dal
primo momento che le richieste non incontravano particolari difficoltà o
problemi”.
Invece le richieste erano molto problematiche. Il
giorno dopo il rilascio, uno dei “portavoce”, Ustad Yasir ha dichiarato: “Tornerò
a combattere con gli altri fratelli mujahidin dell’Afghanistan”. Un altro era
niente meno che il fratello del leader talebano Dadullah, Haji Akhtar Mohammad,
alias Mansoor, che ha subito preso il posto del fratello per consentigli una
vacanza dalle fatiche del rapimento. Altri due, Hafiz Hamdullah e Abdul Ghaffar
sono stati definiti “comandanti militari” dallo tesso Dadullah.
L’intervento di D’Alema alla Camera non è stata un’operazione
di verità, ma il pigro e svogliato disbrigo di un dovere a cui si sarebbe
volentieri sottratto. Ne è uscito indenne solo perché davanti alla necessità di
salvare una vita ogni governo compie i suoi errori e cede a compromessi. Ma più
i giorni passano e più si vede con chiarezza che gli errori e i compromessi del
governo Prodi in questa occasione eccedono qualsiasi paragone.