Davanti a una crisi di queste proporzioni stato e mercato sbagliano

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Davanti a una crisi di queste proporzioni stato e mercato sbagliano

19 Ottobre 2008

Come era prevedibile, e a riprova del fatto che quando ad un concetto equivoco come ‘liberismo’ si associa l’aggettivo ‘sinistra’ può venir fuori di tutto, la crisi dei mercati e dei sistemi bancari ha indotto i cosiddetti “liberisti di sinistra” a innalzare peana alla necessarietà dell’intervento dello Stato. Non si capisce bene se per via delle sperimentata capacità dello Stato di tappare i buchi (‘socializzare le perdite’) o per l’ingenua fiducia nella sua capacità di creare ennesime, anche se nuove, ‘regole del gioco’. Le polemiche interne all’agglomerato del ‘liberismo di sinistra’ faranno il loro corso, e ad esse seguiranno autocritiche, difese ad oltranza, ed infine vittime.

 

Il ‘liberismo milanese’, era troppo vicino al “Corriere” e al “Sole 24 Ore” per poter esprimere qualcosa di diverso da ciò che ha espresso: lezioni accademiche sul come lo Stato potrebbe e dovrebbe comportarsi in circostanze, al pari di queste, eccezionali, ma secondo alcuni non impreviste. Ma tutto ciò interessa poco o nulla.

Anche perché, nonostante i massicci e dispendiosi interventi, la crisi, finora, continua inarrestabile ed insensibile alle iniezioni di liquidità e alle esortazioni dei politici ad aver fiducia. Gli Stati nazionali, i G7, la Banca Europea, l’Euro zona, etc., anche in questa circostanza, procedono –come secondo Popper avviene in ogni branca del sapere umano– ‘per tentativi ed errori’ (tanti), senza ricette certe, ma con l’obiettivo-speranza di imbroccarne una e di placare, finalmente, le inafferrabili aspettative delle Borse.

Il fatto che gli effetti positivi ancora non si vedano è emblematico della possibilità della politica di poter disporre di tutta la conoscenza necessaria per gestire situazioni di emergenza e di ‘produrre’ ordine, fiducia e certezza. E questa crisi, come le altre nel passato, produrrà (si spera), alla fine (ma non si sa quando), nuovi equilibri e nuovi assetti di potere internazionali che nessuno stato e nessun organismo internazionale aveva programmato e neanche ipotizzato.

Tutti, stati e mercati, sono per il momento in balia di dinamiche apparentemente incontrollabili e riguardo alle quali non si dispone della conoscenza necessaria per guidarle e per prevederne gli esiti. La realtà, come sempre, sembra sfuggire ai tentativi di dare agli eventi un ‘ordine politico’ perché è indubbiamente difficile pensare di ‘regolare’ qualcosa di cui, se pure se ne conoscano imperfettamente le cause, è impossibile prevedere gli sviluppi. Ciò sarebbe possibile se i fenomeni economici e finanziari obbedissero a delle “leggi naturali” che comunque andrebbero, a loro volta, correttamente intese.

Di conseguenza, poiché della conoscenza di tali presunte ‘leggi’ non godiamo, e poiché è tutto sommato assai difficile pensare che i fenomeni culturali come il mercato, e più in generale le istituzioni sociali, si sviluppino secondo “leggi naturali e prevedibili”, la capacità della politica di “recar ordine” non sembra differire dalla possibilità che il mercato spontaneamente lo trovi. E per di più, il ricorso della politica alla coercizione come strumento per accelerare il processo di ordine, viene inteso dal mercato non soltanto come un intrinseco segno di debolezza, ma come il segnale di un qualcosa da cui è bene tenersi alla larga.

Accanto ai vecchi e nuovi ‘interventisti’, e a coloro i quali deducono da questa crisi la necessità di superare il mercato con un’’economia sociale’ di stampo vagamente corporativa, sembra anche che il fronte dei sostenitori delle “virtù catartiche del mercato” si sia dissolto in un imbarazzato silenzio o che stia ripiegando, disordinatamente, verso territori del pensiero ancora sconosciuti ed inesplorati.

Se non fosse che anche lo Stato sembra fallire, tutto ciò potrebbe indurre a pensare che l’ennesimo ed eclatante “fallimento del mercato” abbia, ancora una volta, dimostrato che dello Stato e della politica non si può fare a meno. E quindi che il sogno dei ‘liberisti’ di sostituirlo con un mercato globalizzato vada buttato nella spazzatura, insieme ai titoli dello stesso nome. In realtà sia i teorici del mercato, sia i teorici della insostituibilità dell’azione dello Stato hanno poco di cui gioire.

Ma questi ultimi dovrebbero riflettere su ciò che uno studioso del Libertarianism, Piero Vernaglione, ha scritto il 9 febbraio su “Il foglio”: I commentatori antimercantilisti, che in queste settimane imperversano sui mezzi di informazione, ci facciano capire. La moneta vigente è un monopolio pubblico imposto coercitivamente. Lo stato ha scacciato l’oro, moneta sana per secoli preferita dal mercato, e lo ha sostituito con una moneta artificiale priva di valore intrinseco. Lo stato ha imposto la riserva frazionaria, consentendo che a copertura dei depositi permanga una quota via via minore di contante, e che le banche creino moneta “dal nulla”. Le autorità monetarie, soggetto pubblico, negli ultimi lustri hanno inflazionato i sistemi economici, provocando bolle finanziarie e immobiliari, attraverso riduzioni artificiali dei tassi di interesse al di sotto della preferenza temporale di equilibrio, cioè del corretto rapporto fra consumi e risparmi (investimenti), hanno drogato l’indebitamento privato. Il sistema monetario con banca centrale ha indotto negli operatori comportamenti irresponsabili (“azzardo morale”) grazie alla garanzia di rifornimenti di liquidità in caso di insolvenza. Dunque: lo stato ha fatto tutto questo, e la colpa è del mercato?

Il fatto principale su cui meditare è che qual che è successo nonostante la fitta trama di istituzioni, agenzie, leggi, regolamenti ed altro – tutte di diretta o indiretta emanazione da parte degli stati e delle organizzazioni internazionali – che non avevano altro fine se non quello di evitare quel che è successo: ma non ci sono riusciti. I tentativi di dar ‘regole al mercato’ si stanno mostrando, ancora una volta, vani. E ciò che ha funzionato altre volte, in questa circostanza pare non sortire gli effetti attesi.

Il mondo, è noto, è diventato assai complesso, ma tra le maglie di tale complessità continuano ad aggirarsi personaggi noti: risparmiatori tanto avidi quanto ingenui, e sovente in possesso di informazioni e conoscenza non adeguate alla loro avidità, managers interessati ai risultati a breve (tanto, statisticamente, la loro vita in azienda è breve, e chi verrà … vedrà!), banchieri a di poco incauti o irresponsabili, politici smaniosi di produrre certezza tramite leggi e di accelerare il processo economico e il progresso sociale, regolamenti, ingenui sostenitori della tesi che la concorrenza possa essere guidata da criteri etici, sostenitori di un antiquato ‘laissez faire’, etc.

Tuttavia, per qui liberal-libertari che si attengono alla definizione mengeriana del fine dell’attività economica: “riprodurre ciò che viene consumato” badando, con prudenza, al lungo periodo, non è successo quasi niente di imprevisto. Le critiche di Hans-Hermann Hoppe al ‘mondo dei managers’ non sono certo di questi ultimi mesi (il suo Democrazia: il dio che ha fallito, è stato tradotto da Liberilibri nel 2005), e sono contemporanee agli studi di Jesus Huerta de Soto sui rischi della ‘riserva frazionaria’. Allora, quando furono pubblicati, si diceva che questi due ‘estremisti del mercato’ esageravano. Ma ora non si può sostenere, come molti pensano, che quel che è successo sia la diretta conseguenza del successo delle idee degli ‘estremisti del mercato’.

È vero, questi estremisti del mercato coltivavano e coltivano il sogno di un mondo senza ‘Stato’ (e forse anche senza politica), ma con ‘parità aurea’ o ‘monete de-nazionalizzate’. Un mondo senza Stato è però un mondo in cui nel mercato i fallimenti sono possibili anche perché il mercato, se inteso come ‘processo di scoperta’, è naturalmente soggetto a sbagliare e a fallire. Il suo vantaggio è che, se lasciato a se stesso, fa continuamente ‘piccoli fallimenti’ da cui chi vuole può e deve trarre insegnamento per moderare o riformulare le proprie aspettative, le proprie valutazioni ed i propri fini. Ogni fallimento diventa così un modo per diffondere informazione e conoscenza. E tutto ciò serve per riformulare aspettative e fini.

Come scriveva Hayek, il mercato non è che un “sistema di trasmissione di informazioni tramite prezzi”. E chi ha letto Hayek (pensatore non particolarmente apprezzato dai “liberisti di sinistra”) sa da sempre (e del resto non ci voleva molto) che se si diffondono informazioni false il risultato difficilmente sarà quello atteso. Come, del resto, avviene quando si cerca di guidare un processo disponendo di una conoscenza inadeguata. Lo stesso vale nel caso in cui riguardo al mercato si diffondano credenze false in merito alla sua possibilità di soddisfare richieste ed aspettative di ricchezza nel tempo ingenuamente atteso dagli agenti. Questo, semplicemente, non è possibile.

Il fatto è allora che se non si ammette la possibilità del fallimento, e soprattutto quando la circolazione delle informazioni atte ad indirizzare i comportamenti degli agenti del mercato viene certificata dallo ‘stato’, la colpa del fallimento delle aspettative individuali (: “ricchi e felici subito!”), non può essere del mercato.

Semplicemente, stiamo assistendo impotenti all’esito della diffusione di credenze e di informazioni infondate che nessuno o quasi ha avuto il coraggio (e la conoscenza) di denunciare come tali, e a cui nessuno ha avuto la forza di opporsi. Il che porta ad una ben più grave considerazione: se non viene data la possibilità di fallire nel mercato, nessuno Stato può evitare che tali credenze si diffondano e che provochino i danni che stanno provocando. Per quanto possano essere sofisticati e pervasivi, gli apparati statali, come non sono riusciti a programmare l’economia, così non sono capaci di evitare che nel mondo si diffondano credenze strampalate ed informazioni false. Possono limitarne i danni –come stanno facendo ed è opportuno che facciano– ma non possono eliminare rischio, incertezza, e “produrre fiducia e certezza”.

All’origine della crisi attuale c’è quindi un’asimmetria tra chi sapeva cosa c’era nei titoli tossici che venivano immessi nel mercato e chi non sapeva che cosa in realtà comprava perché sottovalutava il rischio e perché si fidava delle certificazioni del sistema bancario, delle agenzie di rating, e dell’efficacia del controllo statale su di esse. C’è, in altre parole, l’incapacità di controllare il sistema di informazione in un sistema complesso perché la produzione e la diffusione dell’informazione non è nelle mani e neanche nelle capacità di nessuno (politici, operatori economico-finanziari, consumatori e risparmiatori).

Tuttavia, e per essere intellettualmente onesti, bisogna riconoscere che, come il mercato non può selezionare le aspettative e non può garantire la veridicità delle informazioni (eliminare il rischio), così non può farlo neanche lo Stato. Non per cattiva volontà o per sfuggire all’accusa di voler rallentare il progresso (inteso, in questo caso, come la tempestiva realizzazione delle più disparate aspettative individuali e sociali), ma, semplicemente, per il fatto che né la politica, né il mercato dispongono, e non possono disporre, della conoscenza per farlo. Come, del resto, è ingiusto chiedere allo Stato di produrre in tempo reale regole che disciplinino efficacemente (vale a dire senza che si producano nel lungo periodo conseguenze inattese) prodotti finanziari appena apparsi sul mercato mondiale, e dei quali si può conoscere poco e ancor meno riguardo al successo e alle conseguenze che avranno.

Di conseguenza, a smentire la credenza (parimenti immotivata) di quanti pensano che se si lasciasse fare al mercato le cosa andrebbero per il meglio (sempre che possa esistere qualcosa che sia ‘buona’ per tutti contemporaneamente, anche nella versione riduttiva di ‘tutti coloro che partecipano a quel mercato’), è il fatto che tutto ciò ‘potrebbe’ avvenire se tutti disponessero delle medesime informazioni ‘vere’, le sapessero usare ‘rettamente’, e puntassero a realizzare i diversi fini individuali in un modo temporalmente complementare. Cosa purtroppo assai difficile anche perché semplici sfasamenti temporali intralcerebbero questo processo ‘virtuoso’ e produrrebbero comunque incertezza e quindi rischi.

Si badi bene, comunque, che anche l’agire politico soggiace alla medesima logica, con la differenza che in questo caso il processo potrebbe essere controllato tramite la coercizione. Anche se in tal caso, affinché essa possa assicurare quella richiamata complementarietà temporale, sarebbe necessario che chi la usa disponesse di informazioni e di conoscenze sul processo per lo meno pari a quella disegualmente e casualmente distribuita fra quanti vi partecipano.

E allora, se né il mercato, né la politica possono pensare di ridurre le aspettative, assicurare informazioni e conoscenze certe, costringere managers e consumatori ad essere virtuosi, prudenti e moderati, non resta che rassegnarsi al fatto che nessuna istituzione, per quanto tutte abbiano come fine la produzione di certezza, può sopperire alla mancanza di prudenza individuale e di moderazione, alla stupidità, e ai rischi connessi all’avidità. Rischio che per i consumatori incauti è rappresentato dalla possibilità di perdere le loro risorse, e per i produttori di informazioni volutamente false semplicemente il carcere. Come il mercato, quando l’imbroglione viene conosciuto come tale automaticamente lo isola, così dovrebbe fare lo Stato, se vuole avere ancora un senso ed una funzione adeguata al suo costo. Ma anche per esso “la prudenza non è mai troppa”. In realtà, la capacità della politica e delle istituzioni di destreggiarsi tra i prodotti finanziari emessi nel mercato globale da soggetti di cui sovente si sa poco riguardo ad identità e scopi, è pari a quella del mercato. La politica può regolare quel che conosce e ciò su cui può esercitare una costosa forma di potere, ma non dispone della conoscenza e delle risorse per controllare comportamenti e fini di soggetti che, pur non ricadendo sotto la propria giurisdizione, sono in grado di indurre i cittadini di uno stato a comportamenti che quello Stato non vuole.

Ciò di cui si constata oggi il fallimento è quindi, e in definitiva, del tentativo di accelerare i processi tramite la produzione di materiale in definitiva semplicemente cartaceo: bonds e regolamenti.

Ciò che, quando la crisi avrà fatto il suo corso, smentendo ancora una volta che si vada comunque ‘verso il meglio’, imporrà a tutti, politici, operatori economici e finanziari, studiosi di scienze sociali e consumatori, una riflessione più ampia e radicale, che comunque non potrà consistere in un ritorno al passato e neanche in un superamento del sistema di mercato.