Donne coraggiose, di successo e soprattutto americane
27 Gennaio 2008
Che cosa hanno di avventuroso tutte queste donne americane
descritte nel libro Americane avventurose
di Cristina De Stefano (Milano, Adelphi, 2007)? Si direbbe che l’avventura che
le caratterizza sia legata – più che alle singole vicende della loro vita – al
comune carattere che possiedono: quello, appunto, di essere donne americane.
Cerco di spiegarmi: anche in altre parti del mondo, nel nostro stesso Paese,
esistono e sono esistite fotografe, artiste, attrici, poetesse, scrittrici,
giornaliste e scienziate che si sono imposte nel mondo grazie alle proprie doti
e alla forza di volontà di cui erano dotate. Margherita Sarfatti, in epoca
fascista, ne è un esempio; la minuta ed energica Grazia Deledda, premio Nobel
per la letteratura, ne rappresenta una incarnazione paradigmatica, condita
anche da un ingrediente indispensabile: una vita affettiva non lineare e non
felicissima; Oriana Fallaci sembra la realizzazione stessa del tipo in esame, soprattutto
da quando, post mortem, le polemiche
che era solita sollevare da viva si sono placate. Tuttavia, nessuno si
sognerebbe di scrivere un libro su di loro, né tantomeno di intitolarlo
“Italiane avventurose”.
Il fatto è che il termine “avventura” sembra sposarsi
automaticamente con il temine “America”. Non da ora: gli Stati Uniti sono
sempre stati guardati dall’esterno come il territorio sterminato nel quale
ognuno, purché dotato di buona volontà, poteva farsi largo con le sue forze e
conquistare uno spazio, uno status sociale, un benessere, difficili da
raggiungere allo stesso modo partendo da una situazione svantaggiata in Europa
o in altre parti del mondo. E’ anche in questi termini che il Mondo Nuovo è
stato contrapposto al Vecchio Mondo: giovinezza contro vecchiaia, mobilità
contro staticità, futuro contro passato, individuo contro società. Tutti i
viaggiatori dal Vecchio Mondo in America, senza eccezione, hanno sottolineato
queste caratteristiche. In più, l’America del Nord, fin da quando un illustre e
geniale europeo come Alexis de Tocqueville la visita nel 1830, mostra al
visitatore straniero come le donne abbiano conquistato una posizione di tutto
rilievo al suo interno: non inferiori all’uomo, non sottomesse né subordinate,
le donne americane appaiono fin dall’inizio le compagne dei Padri pellegrini
prima e poi di tutti coloro che nascono o giungono nel Nuovo Mondo per
sopravvivere, per migliorare la propria vita, per raggiungere traguardi
ambiziosi.
Da sempre, inoltre, questa immagine delle donne americane
suscita nel Vecchio Mondo una reazione mista di sconcerto e timore: sconcerto
per una parità di fatto che qui era ancora di là da venire, che appariva
scandalosa e avventata, timore per le conseguenze che una simile posizione
avrebbe comportato per la famiglia, i rapporti tra i sessi, la tenuta
dell’intera società. Franco Ciarlantini scriveva in Al paese delle stelle (1931): “La donna americana non porta più nei
rapporti familiari quella soggezione dell’uomo che la faceva preventivamente
soggetta e sottosposta alle imposizioni di questo. (..) La libertà diventa
principio della sua vita (..). Senonché la donna più libera deve accontentarsi
di ciò che da sola può procurarsi.” Ed ecco la girandola di matrimoni e
divorzi, la scomparsa dell’amore, l’”anima disseccata”, fingere di non essere
madri, la libertà sessuale e il controllo delle nascite, la eccessiva
protezione da parte della legge. Cita una donna americana che dichiara: “Noi
dobbiamo attenderci una generazione femminile addirittura ‘gloriosa’: sana,
forte, energica. E allora domineremo del tutto. Per adesso facciamo il primo
passo.” E conclude: “Basterebbe un po’ di devozione, di tenerezza, di umiltà e
di intuizione femminile per rimettere le cose in carreggiata. Disgraziatamente,
queste virtù fioriscono tutte parecchie di migliaia al di qua dell’Atlantico”.
L’immagine degli Stati Uniti come Paese dove la donna è pari
all’uomo e forse anzi esercita una qualche superiorità nei suoi confronti è
molto forte nell’Italia fra le due guerre, quando il modello americano si pone
come sinonimo di modernità, quando l’Europa (e l’Italia in modo specifico)
reagisce a quel modello in nome delle sue tradizioni, della sua identità, della
sua storia e (non da ultimo) della sua religione. E’ l’epoca che Victoria De
Grazia ha descritto in modo efficace nel volume Le donne e il fascismo (Venezia, Marsilio, 1993). Anche nell’Italia
fascista la componente femminile della popolazione attraversa un periodo di
trasformazioni, si avvia al lavoro, si emancipa, ma rimane la contrapposizione
fra l’immagine della massaia italica e l’immagine della libera donna americana.
Negli anni ’50 l’immagine della donna emancipata sorride alle italiane dalle
copertine delle riviste e nelle sale cinematografiche: diventa un confronto
tangibile e molto prossimo, fino a tallonare le italiane. E quando finalmente
dopo il boom anche l’Italia si modernizza (anche grazie al movimento del ’68,
va ricordato), finalmente le americane potrebbero apparire alla pari. Invece,
restano sempre mitiche, con una marcia in più nel bene e nel male: ad esempio
le femministe più strane, più originali, più paradossali, abitano ancora
l’altra sponda dell’Atlantico: Camille Paglia, Donna Haraway con il suo
cyberfemminismo, Teresa De Lauretis.
L’americana: una donna emancipata, una donna libera, una
donna–uomo. Ecco emergere, fra gli altri, anche il tema dell’androgino: una
mutazione sarebbe in corso nella giovane terra d’America, secondo la quale la
donna libera perderebbe le sue caratteristiche specificamente femminili e si
trasformerebbe geneticamente in androgino. Come dire che quando si mette mano
al ruolo naturale della donna, la sua
natura si modifica, si perde e si rovescia.
In questo bel libro c’è una traccia molto forte di tutto
questo. Perché, sebbene diverse fra loro – dalla fotografa Berenice Abbott
all’antropologa Ruth Benedict, dalla proto-ecologista Rachel Carson all’attrice
Mae West – le donne americane delle quali si narra la biografia sono accomunate
da alcuni tratti: prima di tutto, pensano di potersi realizzare nel mondo
grazie alle proprie capacità, in genere scontano amaramente la loro
realizzazione con una dose variabile di infelicità esistenziale, cambiano
amori, mariti, fidanzati e fidanzate a una velocità assai superiore a quella
europea, accade non di rado che i loro desideri e i loro affetti vadano a
persone del loro stesso sesso. Insomma, per tutte queste caratteristiche (delle
quali la più éclatante è certamente l’ultima) sono femminili e maschili
insieme: proprio come tutti i viaggiatori in America hanno sempre detto. Così,
questo libro alla fine fa riflettere sul peso che una idea ha esercitato ed
esercita fra noi: l’idea che la donna che si emancipa e ottiene gli stessi
diritti dell’uomo diventa un po’ uomo.
Cristina De Stefano, Americane avventurose, Adelphi, 2007 , pp. 197, euro 18,00.