Fini parla di cittadinanza in modo propagandistico ma non ha tutti i torti

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Fini parla di cittadinanza in modo propagandistico ma non ha tutti i torti

30 Settembre 2009

Il tema della cittadinanza, o meglio della revisione della nostra legislazione in materia di concessione della cittadinanza allo straniero, sembra ormai essere diventato il tormentone della legislatura. La cosa è apparentemente incomprensibile. Probabilmente agli occhi della grandissima maggioranza della pubblica opinione il tema risulta, se non indifferente, quanto meno secondario. E del resto la vastità e profondità dei problemi che il Paese deve affrontare (crisi economica, burocrazia da riformare, mercati da aprire, giustizia inefficiente, istituzioni lente e lontane dalla cittadinanza …) è tale da rendere di difficile comprensione la ragione in base alla quale uno dei principali motivi di confronto – scontro fra maggioranza ed opposizione ed interno alla maggioranza – sia il dilemma se l’immigrato regolarmente soggiornante sul territorio dello Stato possa chiedere di diventare cittadino italiano dopo dieci anni (come attualmente previsto) o dopo soli cinque (come proposto dalla proposta di legge presentata in Parlamento da alcuni deputati fra i quali spicca l’onorevole Granata, deputato politicamente assai vicino al Presidente Fini).

In realtà sono evidenti le ragioni squisitamente tattiche per le quali un tema del genere è balzato agli onori della cronaca politica. Quello della cittadinanza è diventato il principale grimaldello attraverso il quale l’onorevole Fini (che – altra stranezza – da Presidente della Camera è il maggior sostenitore di una proposta di legge attualmente all’esame di quel ramo del Parlamento!) sta cercando di ampliare i propri spazi di agibilità e di visibilità politica.

Sarebbe però sbagliato liquidare in modo sommario la questione sulla base della evidente strumentalità delle ragioni che muovono i suoi propugnatori. Il tema, oltre che per la sua intrinseca nobiltà (le regole sulla concessione della cittadinanza fanno parte del nucleo essenziale della disciplina che serve ad identificare e qualificare una collettività nazionale), deve essere serenamente approfondito anche perché è particolarmente sensibile in questa fase storica del Paese.

Nel merito una prima questione merita di essere chiarita. Pur essendo il tema normalmente strettamente associato a quello della regolamentazione del fenomeno dell’immigrazione, e del contrasto all’immigrazione clandestina, i due temi sono in realtà del tutto autonomi. La disciplina della concessione della cittadinanza riguarda la fissazione delle regole in base alla quale uno straniero può diventare cittadino italiano, può entrare a far parte della Nazione. La disciplina dell’immigrazione riguarda invece la fissazione delle regole in base alle quali un cittadino straniero può regolarmente soggiornare stabilmente in Italia. E non si tratta di una distinzione sofistica. Basta pensare alle incommensurabili dimensioni dei due fenomeni. Nel 2007 soggiornavano regolarmente in Italia oltre 4 milioni di cittadini stranieri; nello stesso periodo la concessione della cittadinanza ha riguardato meno di 40 mila stranieri. Meno dell’1 per cento! E i numeri sono ancora più eclatanti se includiamo l’esercito di immigrati irregolari (che potrebbero sperare in una regolarizzazione per poi ottenere la cittadinanza). E vogliamo sperare che nemmeno il più accanito sostenitore del terzomondismo politicamente corretto immagini che con la bacchetta magica di una semplice leggina sia possibile ed auspicabile trasformare 4 milioni di lavoratori stranieri in altrettanti cittadini italiani. Cose del genere non accadono nemmeno nel Paese delle meraviglie.

Nessuno può quindi ragionevolmente sostenere che l’alleggerimento delle condizioni di concessione della cittadinanza può avere un impatto significativo sul fenomeno migratorio che in misura sempre più consistente interessa il Paese e che è avvertito come fonte di problemi e causa di insicurezza. E, sia detto per inciso, poco interessa che la sensazione di insicurezza e di paura che il fenomeno migratorio genera in larghe fasce di cittadini sia fondata o meno. Ed anche ad ammettere che si tratti di fenomeni del tutto infondati (il che ci appare improbabile se consideriamo le statistiche sulle percentuali di reati commessi da cittadini extracomunitari), resta il fatto che la politica deve farsi cercare di dare risposte efficaci a tali dinamiche, pena l’ingenerarsi di pericolose spirali violente e xenofobe.

Del resto già oggi la posizione del cittadino extracomunitario che soggiorni regolarmente sul territorio dello Stato appare adeguatamente garantita. A fronte dei doveri cui soggiace, l’ordinamento gli riconosce diritti sostanzialmente equivalenti a quelli riconosciuti ai cittadini. L’unica reale (ed importantissima) differenza riguarda il godimento dei diritti politici; non tutti i diritti politici ma solo del diritto elettorale attivo e passivo. Ma, è evidente a tutti, che il diritto elettorale rappresenta il cuore di una Nazione ed è pertanto sacrosanto che lo Stato lo riconosca solo a chi fa parte fino in fondo di una comunità nazionale. Non basta essere in regola con il permesso di soggiorno, svolgere regolarmente il proprio lavoro, adempiere puntualmente ai propri obblighi fiscali. Per essere cittadino occorre soprattutto essere e sentirsi parte di una comunità.

Ma c’è un altro punto critico nella proposta sulla cittadinanza breve. L’idea di accelerare la concessione dello status di cittadino sembra figlia di una concezione novecentesca dell’immigrazione. Una stagione nella quale l’immigrazione in un paese lontano da quello di origine coincideva nella stragrande maggioranza dei casi con l’interruzione definitiva dei legami con il Paese di origine. Oggi, grazie alle nuove tecnologie ed ai mutamenti sociologici che hanno interessato i paesi di provenienza degli immigrati, il fenomeno migratorio è estremamente più mobile. Facilità di trasporto, facilità di comunicazione, facilità di trasferimenti finanziari, fanno si che oggi l’immigrato sia normalmente inserito nel suo contesto d’origine in modo assai più stabile e continuativo di quanto accadeva un secolo fa. Non solo. Il consolidamento dell’Unione europea e l’abbattimento delle barriere fra i singoli paesi dell’Unione fa si che oggi gran parte degli immigrati extracomunitari sia estremamente mobile all’interno dell’Europa.

A ben vedere l’idea di affrontare il fenomeno dell’immigrazione attraverso l’allargamento dei criteri per la concessione della cittadinanza traduce una concezione di stampo nazionalista. Traduce l’idea che in un Paese debbano convivere stabilmente unicamente i “cittadini” e che la presenza di stranieri debba essere marginale e transitoria. Rappresenta, cioè, la negazione di quella società multirazziale da sempre in cima ai desideri del pensiero politicamente corretto.

Ma non tutto merita di essere buttato nella proposta di legge Granata. L’idea più interessante della proposta consiste nello spostamento del baricentro dei procedimenti di concessione della cittadinanza dal profilo burocratico quantitativo a quello valutativo – qualitativo. L’idea che l’aspirante cittadino debba dimostrare di possedere alcuni requisiti che lo rendono idoneo al nuovo status merita di essere valorizzata perché si inscrive perfettamente in una corretta concezione del tema della cittadinanza. Tema che deve essere affrontato non tanto in termini astratti di diritto naturale e di jus gentium,  quanto piuttosto avendo ben presente l’interesse della Nazione. Se esiste la cittadinanza è perché esistono le nazioni e le regole che disciplinano la concessione della cittadinanza devono essere pensate avendo sempre ben presente l’interesse nazionale.