Food Miles: il costo ambientale della nostra insalata

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Food Miles: il costo ambientale della nostra insalata

28 Marzo 2008

I problemi ambientali sembrano interessarci sempre più da
vicino. Cambiamenti climatici, effetto serra, qualità dell’aria che respiriamo
sono argomenti di ogni giorno animati dagli articoli sui giornali, dai
dibattiti in televisione, dalle chiacchierate al bar.

Ma quanto il quotidiano influenza l’ambiente in
cui viviamo? Qualcuno si è preso la briga di quantificarlo in relazione alle
attività più comuni e necessarie, quali l’approvvigionamento e la distribuzione
degli alimenti, ed ha amaramente constatato che dietro l’abbondanza di frutta e
verdura fresca che colora ogni giorno le nostre tavole c’è un altissimo costo
ambientale. Si perché gran parte degli alimenti che consumiamo non sono sempre prodotti
“dietro l’angolo” ma devono fare diversi chilometri prima di giungere nel
nostro piatto. I food miles, un
concetto proposto da Tim Lang nel negli anni ‘90, considerano appunto la
distanza che il nostro cibo percorre dal luogo di produzione (il campo) alla
tavola (il piatto) e attribuiscono un costo ambientale al trasporto di un
prodotto. In Gran Bretagna dove questo problema è molto sentito ed è stato
affrontato già da un pò di anni, è stato visto che circa il 30% del traffico
stradale è dovuto al trasporto di beni alimentari che, nel 2005, ha causato in
termini di congestione stradale, incidenti ed inquinamento un costo al paese di
circa £9bn (più o meno 11 miliardi di
€). Ma quanto viaggia l’insalata?

Uno studio condotto negli Stati Uniti ha dimostrato
che prodotti come spinaci, broccoli, piselli e simili percorrono in media 2400 km prima di
raggiungere il mercato di Chicago. Sempre negli Stati Uniti è stato visto che dell’energia
consumata dal settore agro-alimentare, solo il 20% è attribuibile alla
produzione in se per sé mentre il restante 80% è necessario per il processo di
trasformazione delle materie prime, il trasporto, la refrigerazione e la
preparazione del prodotto.

Anche in Canada la situazione non è delle migliori.
I 58 prodotti più comunemente utilizzati viaggiano in media 4500 km prima di arrivare a
casa del consumatore, con una produzione di 51709 tonnellate di gas serra. Il
trasporto aereo potrebbe apparire più vantaggioso ma, sempre in Gran Bretagna,
è responsabile dell’11% delle emissioni di CO2 dovute al trasporto totale
di alimenti. Gli aerei infatti generano 177 volte più gas serra rispetto ad
altri mezzi di trasporto.

Consumare prodotti “locali” potrebbe
essere più sostenibile dal punto di vista ambientale, così sostiene Josh Martin
dell’associazione canadese 100Mile-Diet
che promuove il consumo di prodotti che fanno al massimo 160 Km. Ma è sempre vero?
Alcuni studi dimostrano che può essere addirittura più conveniente, in termini
energetici, trasportare pomodori con un camion dalla Spagna alla Gran Bretagna
che produrre gli stessi pomodori in Gran Bretagna utilizzando una serra
riscaldata. A conclusioni simili si è giunti quando i nostri amici inglesi hanno
confrontato le emissioni in CO2 per unità di prodotto dovute a
qualsiasi mezzo di trasporto rispetto alle più inquinanti produzione in serra
(che da loro richiedono un riscaldamento maggiore che nelle calde aree
mediterranee).

I neozelandesi, che all’ambiente
tengono in particolar modo, sostengono invece di dover considerare l’intero
ciclo vitale di un prodotto dal campo alla tavola, incluse tutte le attività ad
esso associate, e quindi l’ energia impiegata per produrre fertilizzanti e
pesticidi, per muovere le macchine agricole, per riscaldare o raffreddare. Il
riduttivo concetto di “food miles” dovrebbe pertanto essere sostituito con quello
di “ecological foot-print” (impronta ecologica), un indice che dà una
quantificazione più completa dell’intero impatto ambientale.

Il problema dunque è vasto, con conseguenze
sociali ed economiche su scala globale che, necessariamente, implicherebbero
complesse riorganizzazioni dei sistemi produttivi. Ridurre i food miles in sè per sè contrasta con la
possibilità reale di produrre frutta e ortaggi ovunque, in qualsiasi periodo
dell’anno, nella varietà a cui siamo abituati ed a cui si stanno abituando le
economie emergenti, il tutto a costi ragionevoli. Le tecnologie più avanzate tuttavia
potrebbero mettere a disposizione colture in grado di produrre meglio ed a
costi più contenuti (anche in luoghi meno favorevoli), di utilizzare meno
risorse e più efficientemente (vedi i precedenti articoli di questa rubrica),
di avere prodotti più sani ed a minor impatto ambientale.

Allo stesso tempo i nostri stili
di vita e le nostre esigenze alimentari si adatteranno presto a nuovi standard.
Sceglieremo forse una mela rispetto ad un’altra non solo perchè più dolce e più
croccante ma anche perché più rispettosa dell’ambiente
in cui viene prodotta.

 

Ref.:

L’Espresso 13 Marzo 2008 pp. 165-167.

http://www.bbc.co.uk/food/food_matters/foodmiles.shtml

http://attra.ncat.org/