Gli Stati Uniti dovranno mostrare i muscoli per tenera a bada la Russia
11 Dicembre 2009
di Ivan Krastev
Fu Justice Oliver Wendell Holmes ad osservare che le relazioni tra due attori coinvolgono in realtà sei “persone”: l’immagine che ogni attore ha di se stesso, l’immagine che ogni attore ha dell’altro ed infine l’essere reale di ogni attore. Prendendo in prestito questo ragionamento, il successo della politica del “reset” del Presidente Obama nei confronti della Russia dipenderà non solo dai passi giusti compiuti da Washington, ma anche dalla capacità americana di interpretare in quale modo il Cremlino vede gli Stati Uniti e il suo nuovo Presidente.
Diversamente da molti dei suoi detrattori, l’Amministrazione Obama non è incline al considerare la Russia di Vladimir Putin come una riedizione in formato tascabile dell’Unione Sovietica. La Russia di oggi non è un Paese democratico, ma non è nemmeno una dittatura guidata dall’ideologia. I russi sono più benestanti e godono di più libertà oggi che in ogni altro periodo della loro storia. Le èlite non si occupano più di demolire il capitalismo; addirittura se lo godono. La maggioranza dei russi è a favore della democrazia, però molti guardano sospettosi al desiderio made in USA di portare la democrazia nel loro Paese. Le speranze che la pressione portata dall’America possa condurre ad un cambio democratico sono quindi mere illusioni.
Il Presidente Obama ha ragione a credere che la Federazione Russa sia una potenza in declino piuttosto che una potenza emergente, e che il recente revisionismo russo – manifestato con la guerra in Georgia dell’agosto scorso – sia spiegabile più come prova dell’insicurezza del Cremlino che come disegno imperialista. All’indomani della crisi economica globale, Mosca è terrorizzata dalle debolezze e dall’irrilevanza di cui è vittima nell’era post-Guerra fredda. Le autorità russe cercano disperatamente di conservare lo status di grande potenza in un periodo di grandi sconvolgimenti geopolitici. Come ha detto Putin nel 2008, “La Russia sarà una grande potenza, oppure non sarà”.
Obama ha buone ragioni per credere che una politica basata sul pragmatismo e sul rispetto possa risultare vincente nei confronti di Mosca. Per il Cremlino, è più realistico pensare di mantenere lo status di grande potenza scegliendo la cooperazione con gli Stati Uniti rispetto al confronto. Russia e USA non condivideranno gli stessi obiettivi e le medesime aspirazioni, ma hanno preoccupazioni comuni: sia la Casa Bianca che il Cremlino sono preoccupati per l’emergere della Cina, così come si sentono entrambi minacciati dall’insorgenza del fondamentalismo islamico (la Russia è lo Stato europeo con la più grande minoranza musulmana, ed è quindi maggiormente esposto ai rischi del radicalismo islamico). Malgrado le numerose debolezze, la Russia possiede anche un potenziale strategico che potrebbe risultare essenziale agli Stati Uniti nel loro sforzo di riequilibrio del sistema internazionale.
Dove l’attuale Amministrazione americana potrebbe cadere in errore è nella sua interpretazione di come Mosca giudica il potere esercitato dall’America ed il suo ruolo futuro nel mondo. Ci sono ragioni per ritenere che il Presidente Medvedev abbia deciso di scommettere sul successo di Obama, ma la Russia non è solo, o principalmente, Medvedev. La politica estera russa è profondamente segnata dal crollo dell’Unione Sovietica e dalle sue conseguenze. Le èlite russe sono portate a pensare agli Stati Uniti di oggi attraverso dirette analogie con l’esperienza sovietica degli ultimi anni Ottanta. Sono molti in Russia quelli pronti a leggere le difficoltà americane in Afghanistan come una ripetizione del fallimento dell’occupazione sovietica di quel Paese, nonché a tracciare dei paralleli tra le conseguenze del declino di Wall Street e gli effetti che il muro di Berlino ha provocato sull’influenza sovietica nel mondo.
Ad esempio, Igor Panarin, professore all’Accademia diplomatica di Mosca, è arrivato a predire la disintegrazione degli Stati Uniti nell’arco del prossimo decennio. La sua è una visione estrema, tuttavia è sintomatica di questo tipo di mentalità. In un articolo apparso su Russia in Global Affairs, Alexander Kramarenko, direttore del dipartimento della pianificazione politica del Ministero degli Esteri russo, ha scritto che “l’attuale crisi negli Stati Uniti rientra nella stessa categoria del crollo dell’Unione Sovietica”. I russi chiaramente ritengono che l’influenza globale americana sia vittima di un declino irreversibile e che la società americana sia attraversata da una serie di gravi crisi di natura politica, economica, ideologica.
Lo stesso Presidente Obama è visto in Russia come il Mikhail Gorbaciov americano, con la differenza che i russi sono meno impressionati rispetto agli altri europei dal carisma e dalla popolarità del nuovo inquilino della Casa Bianca. I russi ricordano la "Gorbi-mania" che conquistò il mondo nel momento in cui l’Unione Sovietica stava per collassare. Mosca è propensa a giudicare il riformismo globale di Obama, assieme alla sua agenda progressista, come un’espressione della debolezza americana e non come una caratteristica propria della rinnovata forza e legittimità degli Stati Uniti.
Cosa significa tutto questo nel contesto della politica del “reset”? Anzitutto, significa che i russi non si affretteranno a rispondere ai segnali positivi lanciati da Washington, ed ogni percezione di una debolezza americana diminuirà la disponibilità di Mosca a collaborare anche in aree di interesse e preoccupazione comune. Non sarà la deferenza bensì la forza del Presidente Obama a persuadere il Cremlino a prendere la strada della cooperazione con Washington. In altri termini, al fine di convincere i russi, Obama deve prima dimostrare di non aver bisogno di loro; necessita perciò di un successo limpido, contro i Taleban in Afghanistan, le ambizioni nucleari iraniane o le svalutazioni competitive attuate da Pechino. Affinché la politica del “reset” abbia successo, Obama deve mostrare i muscoli.
Tratto da The Washington Post
Traduzione di Emanuele Schibotto