Guardando a Suez. Cosa il Canale dice di noi
29 Marzo 2021
Può un agente invisibile bloccare l’intero pianeta? E una nave bloccare il Canale di Suez e di conseguenza una parte significativa dei transiti globali di merci? Sono due domande banali, che, con un facile esercizio retorico, in molti oggi stanno proponendo. Come molti degli interrogativi più semplici, sono però un buon punto di partenza per qualche riflessione. Se ci avessero posto queste domande nel gennaio 2020, in pochi avrebbero detto che “sì”, la comparsa in una zona del pianeta di un virus sconosciuto ci avrebbe imposto misure sino a poco prima impensabili e che una nave, per quanto grande, avrebbe potuto bloccare il Canale di Suez. Eppure è accaduto.
Certo, non è la prima volta che il Canale vede incidenti tra le sue sponde. A fronte della media di quasi 52 navi transitate ogni giorno nel 2020, gli incidenti avvenuti negli ultimi dieci anni sono stati circa settanta e naturalmente non è la prima volta che il transito nell’alveo artificiale si blocca per ragioni che non hanno a che fare solo con acqua, navi e agenti atmosferici. Sono nei libri di storia e hanno lasciato segni indelebili anche nella contemporaneità i blocchi del 1956, dopo l’annuncio della nazionalizzazione da parte del Presidente Nasser, così come il conflitto tra Egitto e Israele del 1967. Eppure, oggi, quel blocco, avvenuto per cause da accertare, che le cronache riconducono a una tempesta di sabbia e a un errore tecnico e umano nel transito della mastodontica portacontainer Ever Given della compagnia taiwanese Evergreen: 400 metri di lunghezza, 59 di larghezza e un carico di quasi ventimila container, ci dice qualcosa sul nostro presente e sul nostro futuro.
Intanto, e ce lo ha ben ricordato in questi giorni su Il Foglio, Stefano Cingolani, quanto accade a Suez ci conferma che la catena del valore mondiale necessita di un ripensamento. Non certo verso l’autarchia, ma senza dubbio nella direzione di un rafforzamento di ampie aree geo-economiche.
Questo ci porta al secondo tema di riflessione, la rilevanza di una politica estera che sia in grado di guardare ben oltre la gestione degli affari correnti e che sappia in modo autorevole declinare percorsi all’interno dell’Unione europea e, nell’ambito di quest’ultima, del Mediterraneo. Non solo perché dei 9,6 miliardi al giorno di danno economico causato dal blocco di Suez, 5,1 sono sulle spalle dei Paesi del Mediterraneo, ma anche perché solo una strategia seria e consapevole in quest’area, messa in campo dal nostro Paese e dall’Unione europea, può offrire risposte alle questioni “interne”, a partire dal rapporto con i Paesi del Nord Europa, ma anche in un’ottica di crescita del nostro Mezzogiorno, e a quelle internazionali, dai rapporti con Egitto e Siria alla relazione con una Turchia sempre più distante dall’Europa. Così come nella relazione con Israele, che, ancora una volta, ha dimostrato la propria capacità organizzativa sul fronte sanitario, con un piano vaccinale che pare stia funzionando molto bene, ma che lo avrebbe fatto certamente meno se sulle 8 milioni di dosi Pfizer-BioNTech ordinate dal Governo israeliano e prodotte in Belgio, l’Unione europea avesse esercitato la propria facoltà nel blocco delle esportazioni. Non lo ha fatto, e questo è un bene, ma è una scelta che deriva da una strategia. E senza strategia non funziona la logistica, così come la politica estera. Decidere oggi di assumerci in modo ambizioso qualche rischio per massimizzare i benefici nel futuro è dunque fondamentale e chiarire qual è la posizione del nostro Paese e dell’Europa nei confronti della Cina non è secondario; la via della seta marittima passa da Suez.
C’è un ultimo aspetto, non meno rilevante, sul quale il blocco di Suez ci invita a riflettere: è il tema delle infrastrutture e della logistica nel nostro Paese. Da Suez passa il 30 per cento dei container mondiali, il 10 per cento delle merci e il 4,4 per cento del petrolio. Il Canale è il passaggio più comune nella rotta tra Singapore e Rotterdam, il principale, e intasato, porto del Paesi Bassi, il primo in Europa. Non sfugge che su quella rotta, ben prima di Rotterdam, ci sia il Mar Mediterraneo e quella lingua di Terra che è il nostro Paese. Dove, però, i porti attrezzati per ricevere colossi della stazza dell’Ever Given sono pochi, perché prevale una vocazione al mercato interno, e le altre infrastrutture per collegarci al resto del Continente sono spesso carenti. Se c’è una cosa che, ancora una volta, ci ricordano le quasi quattrocento navi che in queste ore attendono di attraversare il Canale di Suez con il loro carico di circa 8,12 miliardi di euro di merci, è che quel Canale e le sue interconnessioni globali riguardano in prima battuta noi.
Quando leggiamo nelle Linee programmatiche del Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili, con qualche speranza generale almeno per le prospettive, che la riforma della legge 84 del 1994 è stata realizzata nel 2016 e che quell’intervento si è limitato a “innovare solo alcuni aspetti della portualità italiana” non possiamo però non chiederci cosa si debba ancora attendere.
Certo è, purtroppo, che pur essendo necessario intervenire e farlo in fretta, anche le risorse per gli investimenti sulla portualità, che arrivano a quasi un miliardo e mezzo di euro, senza contare quanto verrà stanziato con il PNRR, non sono al sicuro, vista l’ombra delle “difficoltà di realizzare le opere per l’estrema complessità̀ delle procedure per l’affidamento degli appalti”. Anche questo, in una fase di definizione delle linee per il rilancio del nostro Paese, deve essere considerato ottimisticamente come il primo passo di un cammino che muova dalla consapevolezza di qual è il punto di partenza, per arrivare in modo risoluto alla meta.
Una meta che, consci di cos’è Suez, intendendo per Suez quello che si muove nel nostro mondo e rispetto a cui non possiamo restare indifferente nascondendoci dietro i troppi “no” di questi anni, No Tap, No Tav, No Terzo Valico, ci riporti a casa nostra, nei nostri porti e retroporti, che possono rappresentare uno strumento di crescita per il Sud, così come per le Aree interne e per tutto il Paese. Se un virus può tenere sotto scacco l’intero Pianeta e una nave può tenere bloccato per giorni il Canale di Suez, nulla impedisce di trasformare queste avversità in opportunità, nel caso di Suez, per dare finalmente sostanza a una delle vocazioni geopolitiche e commerciali del nostro Paese. È tempo di darsi da fare.