I franchi tiratori sbagliano mira ma il problema Lega resta
08 Aprile 2009
Il voto a sorpresa di oggi con cui la Camera ha bocciato la norma voluta dal Governo per allungare a sei mesi il periodo di permanenza degli immigrati irregolari nei Centri di identificazione ed espulsione rappresenta un segnale importante che sarebbe sbagliato sottovalutare.
Certo i contenuti dell’episodio non sono edificanti. Per quanto riguarda il merito non può sottacersi il fatto che fra tutte le forzature che la Lega ha imposto al Governo in questi mesi (dalle quote latte alle ronde, dalle classi differenziate per i bambini immigrati alla riserva degli incentivi alle imprese che non delocalizzano) questa era francamente una delle più ragionevoli. Un allungamento, per di più coerente con le previsioni europee, del termine di permanenza nei centri, di fronte al collasso delle strutture amministrative preposte all’azione di contrasto all’immigrazione irregolare (che forse sarebbe più coerente appellare immigrazione illegale), appare condivisibile.
Ma anche peggiori sono i contorni istituzionali della vicenda. Secondo le migliori tradizioni della Prima Repubblica, il Governo è andato “sotto” in una votazione a scrutinio segreto grazie al contributo determinante di una ventina di “franchi tiratori” (categoria istituzionale che credevamo estinta e della quale non si sentiva affatto la mancanza). Se nella maggioranza vi sono delle tensioni e delle diversità di vedute sul merito di alcuni provvedimenti sarebbe assolutamente opportuno che queste emergano in modo trasparente e democratico (in democrazia conoscere gli orientamenti e i voti dei propri rappresentanti rappresenta un valore fondamentale).
Ora, però, occorre concentrarsi sui profili politici della questione. Una prima considerazione da svolgere riguarda la strategia politica del PdL in materia di immigrazione. O meglio la mancanza di strategia. In questi mesi, si è consolidata l’impressione che il PdL sia sostanzialmente sprovvisto di un propria linea politica sulla materia finendo per andare a rimorchio dell’esuberante alleato. Troppo spesso le idee del PdL in materia sono apparse deboli, confuse e contraddittorie. Troppo spesso il Governo, incapace di affermare con chiarezza una propria visione ed una propria strategia, è sembrato subire, semmai con fastidio, le estemporanee incursioni, più propagandistiche che reali, della Lega.
Si tratta però di una lacuna grave perché il tema dell’immigrazione è un tema decisivo per il nascente partito. Decisivo non solo perché si tratta di un tema centrale in questa fase storica e nel prossimo futuro. Ma decisivo soprattutto perché si tratta di un profilo fondamentale nella costruzione dell’identità di una forza moderata liberal – conservatrice che aspiri a guidare il Paese per i prossimi dieci ani. La capacità di governo su questo tema si misura dalla capacità di coniugare le fondamentali esigenze di sicurezza dei cittadini con le altrettanto importanti esigenze di una società che invecchia sempre più rapidamente e che ha bisogno dell’apporto di capacità lavorative dall’estero.
Fino ad oggi sul tema dell’immigrazione si sono confrontati solo due integralismi entrambi ingenui e fallaci. Da un lato l’ingenuo approccio buonista e terzomondista dell’accoglienza, del multiculturalismo e dell’integrazione. Dall’altro quello vagamente xenofobo ed autarchico della chiusura, della mera repressione e della difesa dei lavoratori italiani. Occorre cambiare registro. Occorre riuscire a coniugare l’apertura e l’accoglienza verso l’immigrazione “buona” (quella che va incontro alle esigenze delle imprese e delle famiglie italiane) con il rigore e la giusta durezza verso l’immigrazione “cattiva” (quella che determina solo la crescita della criminalità, che in molti casi alimento il fondamentalismo terroristico e che quindi fa crescere la diffidenza nella pubblica opinione verso tutti gli immigrati). E non vi è nessun dubbio che, oggi, tale distinzione non coincide affatto con quella fra immigrazione regolare ed immigrazione clandestina.
Ma vi è anche un altro profilo, più schiettamente tattico, da considerare. Nel primo anno di legislatura, il PdL, e Berlusconi in particolare, ha spesso dato l’impressione di considerare definitivamente risolto il problema del rapporto con la Lega Nord. Immemori delle vicende della XII legislatura, quando la rottura con Bossi sul tema sacrosanto della riforma delle pensioni portò al ribaltone, si è dato per scontato che la lealtà dell’alleato leghista avesse ormai assunto un carattere strategico e di lungo periodo. Ma in politica domina il breve periodo (del resto, come ammoniva Keynes, nel lungo periodo saremo tutti morti). E le alleanze durano solo fintantoché vi è reciproca convenienza. E ciò è tanto più vero quando si ha a che fare con un alleato tanto disinvolto sul piano tattico da essere stato sublimemente qualificato, in un passato non troppo lontano, come costola della sinistra! Meglio quindi non farsi illusioni. Meglio predisporre una strategia per rendere mansueto l’alleato, inducendolo ad una maggiore temperanza.
In questa prospettiva, nasce spontanea una domanda. Siamo proprio sicuri che averla data gratuitamente vinta alla Lega sulla questione del referendum elettorale (che la Lega vede come il fumo negli occhi) sia stata la scelta migliore? Siamo certi che non convenga spostare di un anno la data di celebrazione del referendum, in modo da mantenere un potere di deterrenza, qualora le intemperanze leghiste dovessero diventare incontenibili? Si vis pacem para bellum!