Il divorzio tra sinistra e lavoro (in sette emendamenti)
23 Settembre 2014
di redazione
Storicamente la sinistra si e’ sempre fatta vanto di comprendere i cambiamenti del mondo del lavoro, la mutazione dei modi di produzione, del tempo di lavoro, delle sue mansioni, eccetera eccetera. Ma leggendo le anticipazioni sugli emendamenti presentati ieri dalla minoranza del Pd l’impressione e’ che si tratti, appunto, di vanterie e che non si riesca a comprendere la potente rivoluzione sistemica generata dalla globalizzazione. Lasciamo stare la vicenda dell’articolo 18, che a quanto pare può essere superato ma solo per i primi tre anni e già questo basterebbe a dare la cifra dello stato confusionale in cui versano gli oppositori di Renzi. Ma come si fa a giudicare il contratto a tempo indeterminato "la forma privilegiata del contratto di lavoro" nel triennio quando si sono già liberalizzati i contratti a termine? Va bene disboscare la contrattualistica ma si può davvero ritenere che in futuro le persone nella loro vita faranno un solo lavoro, sempre lo stesso ed immutabile? Vi sembra che così va il mondo? Perché mettere dei paletti ai cambi di mansione nelle imprese visto che il lavoro anche sotto la spinta della innovazione tecnologica si modifica continuamente? Perché non puntare con più coraggio sul telelavoro, si pensi ai nuovi lavori del web? Perché "contenere" quello stagionale? E infine perché tutto questo andrebbe subordinato al discorso sugli ammortizzatori, 4 miliardi di euro secondo Stefano Fassina? Il guaio di certa sinistra non e’ solo e tanto il fatto di ricadere in vecchie logiche ideologiche. L’impressione, ben più grave, e’ che ormai alla sinistra manchi del tutto la capacità politica di comprendere la dialettica tra capitale, lavoro, reddito, patrimoni, e così via. E a questo punto viene da chiedersi se dopo gli anni Settanta quella capacità ci sia mai stata o invece, come dire, si sia preferito vivere di rendita. Ultimi giapponesi in un mondo che si trasformava e che non ha più smesso di farlo.