Il governo sa che metter mano alle pensioni è ancora una priorità
09 Giugno 2008
“Alcune caratteristiche del sistema pensionistico italiano tengono lontana dal lavoro una quota troppo ampia della popolazione. Solo il 19 per cento degli italiani tra i 60 e i 64 anni svolge un’attività lavorativa, contro il 33 per cento degli spagnoli e dei tedeschi, il 45 dei britannici, il 60 degli svedesi. È ora di rimuovere i vincoli e i disincentivi al proseguimento dell’attività lavorativa per coloro che sono nel regime retributivo; ampliare i margini di scelta dell’età di pensionamento per coloro che sono nel regime contributivo; cancellare gli ultimi impedimenti al cumulo tra lavoro e pensione”.
Con queste parole, nelle sue ‘Considerazioni finali’, Mario Draghi ha riaperto la questione delle pensioni, ricordando alla classe politica (chi scrive sta predisponendo un disegno di legge secondo tali indicazioni) che il problema non è ancora risolto. Il Governatore propone di restituire all’età pensionabile nel sistema contributivo la flessibilità che aveva nel modello prefigurato dalla legge Dini del 1995: una flessibilità poi venuta meno in conseguenza dei riordini più recenti. La riforma Maroni del 2004 ha cancellato il c.d. pensionamento di vecchiaia, unico e flessibile, compreso in un range tra 57 e 65 anni, a cui corrispondevano i c.d. coefficienti di trasformazione come strumenti di incentivazione/disincentivazione ragguagliati all’età scelta per la quiescenza. In pratica, la legge n.243/2004 ha finito per trasferire nel contributivo le regole anchilosate del sistema retributivo. La recente legge del Governo Prodi (legge n.247/2007) ha riconfermato l’impostazione del 2004, mantenendo la frantumazione delle regole del pensionamento. A regime, infatti, anche nel sistema contributivo, i lavoratori potranno andare in quiescenza facendo valere i requisiti della vecchiaia (65/60 anni di età e cinque anni di contribuzione effettiva a condizione di percepire un trattamento pari ad 1,2 volte l’importo dell’assegno sociale), con 40 anni di versamenti a qualunque età oppure a 61/62 anni se dipendenti e a 62/63 anni se autonomi con 35 anni di anzianità (inclusa ovviamente la regola delle quote età+anzianità). Per tornare – come ha suggerito Draghi – all’impianto delle legge n. 335/1995, occorrerebbe tener conto delle modifiche apportate, nel frattempo, all’istituto dell’età pensionabile. La nuova prestazione unificata, a partire dal 2014 (anno in cui terminerà la fase transitoria), dovrebbe prevedere, per uomini e donne, una fascia di opzioni compresa tra 62 e 67 anni collegati ad un’adeguata griglia di coefficienti di trasformazione, revisionati con una periodicità triennale. Logicamente, tale impostazione richiede di aumentare gradualmente di due anni (da 60 a 62) l’età di vecchiaia delle lavoratrici, anche nel sistema retributivo. Oltre alla questione cruciale dell’età pensionabile vi sono altri aspetti da affrontare.
Pensione di base – Rebus sic stantibus, nel modello contributivo sarà possibile conseguire un trattamento appena sufficiente soltanto versando un’aliquota contributiva insostenibile (pari al 33% come quella prevista per il lavoro dipendente). Un obiettivo siffatto (che crea enormi problemi pure al costo del lavoro subordinato ed incentiva quindi l’occupazione sommersa) è improponibile per il lavoro autonomo, libero-professionale e atipico. In questi settori saranno erogate quindi pensioni pubbliche assolutamente inadeguate a meno di non intraprendere (come sta avvenendo nel caso dei parasubordinati) incrementi delle aliquote con effetti punitivi e devastanti per l’occupazione. La via da seguire potrebbe quella di allineare – per i nuovi assunti in tutte le tipologie lavorative – l’aliquota contributiva intorno al 24-25% istituendo nel contempo una pensione di base, finanziata dalla fiscalità generale. Si tenga conto che, nel 2008, lo Stato eroga almeno 34 miliardi di euro in qualità di "soccorso" assistenziale alla spesa pensionistica. Tali risorse, invece di inserirsi "a pettine" nel sistema, a tutela di varie e differenti situazioni, potrebbero più razionalmente essere utilizzate per divenire la base di un modello contributivo obbligatorio, divenuto meno oneroso per i lavoratori e le imprese.
Un secondo pilastro per il lavoro parasubordinato – Per consentire agli atipici in via esclusiva il ricorso alla previdenza complementare, andrebbe riconosciuto loro il diritto all’opting out, consentendo di stornare, se lo riterranno, una parte dell’aliquota obbligatoria (fino a 6 punti a regime: per un ammontare, cioè, equipollente rispetto al tfr) allo scopo di costituire e finanziare, in una forma privata di loro scelta, una posizione individuale a capitalizzazione.