Il segretario Gates spiega ad Al Jazeera la politica estera degli Usa
11 Settembre 2009
di redazione
Robert Gates, il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, ha rilasciato due giorni fa un importante e lunga intervista alla televisione Al Jazeera, la più ascoltata TV del mondo arabo. I temi trattati riguardano quell’ampia area che va ora sotto il nome di Medio Oriente “allargato” per sottolineare l’interconnessione delle crisi, dal conflitto israelo-palestinese all’Irak al Pakistan, in un arco geografico che va dal Mediterraneo all’Oceano Indiano e vede partecipare in una sorta di ripresa del “grande gioco” del XIX secolo tutte le grandi potenze internazionali e regionali.
Gates ha affrontato in primo luogo l’andamento della guerra in Afghanistan con il pesante e importante corollario del Pakistan. Il segretario della Difesa ha escluso in modo categorico qualsiasi eventualità di un ritiro dall’Afghanistan: “Sarebbe un imperdonabile errore che ripeterebbe quello già accaduto all’indomani della ritirata dell’Unione Sovietica dal paese… quando gli Stati Uniti lasciarono a se stessi e non curarono con la dovuta attenzione né l’Afghanistan né il Pakistan”. Fatto che ebbe gravi conseguenze non solo sulla situazione immediata e futura della sicurezza nell’area, ma che lasciò l’impressione agli alleati locali che gli Stati Uniti non avessero a cuore la loro sorte (è forse opportuno, anche se spiacevole, ricordare l’effetto che ebbe la fine della guerra del Vietnam su tutti i paesi amici degli Usa nell’area).
Dopo aver dichiarato che ancora non ha elaborato una sua propria idea sulla richiesta di aumentare il numero dei soldati impiegato (ma è sul tavolo del governo il rapporto del generale Chrystal con tale richiesta), il segretario alla Difesa ha riconosciuto due fatti tra loro interconnessi: il rapporto tra andamento del conflitto sul campo, la durata dello stesso e il supporto dell’opinione pubblica interna. Elementi che da sempre determinano la volontà di un paese democratico impegnato nelle così dette guerre asimmetriche costituendo il vero e proprio di centro gravità della potenza imperiale. Dopo otto anni di guerra con un numero crescente di perdite, i cittadini americani si stanno domandando fino a quando i loro ragazzi dovranno rimanere laggiù e quale è l’obiettivo preciso della guerra, perchè “stabilizzazione” o “costruzione della democrazia” sono parole vaghe, specialmente quando incominciano ad essere evidenti sintomi di stanchezza.
Il portavoce della Casa Bianca, Morrell, ha sottolineato da parte sua proprio la delicatezza del rapporto tra opinione pubblica e risultati: “siamo in guerra da otto anni. E’ stato un periodo lungo e difficile sia in costi di vite umane che economicamente. Dobbiamo dimostrare al popolo americano che tutti gli sforzi, tutte queste risorse non sono state spese invano”.
Gates ha riconosciuto onestamente la realtà della situazione sia sul campo che riguardo il consenso interno alla guerra, ma, quando la situazione è peggiorata nel biennio 2005-2006, Washington non ha potuto altro che agire in modo insufficiente perché, “a causa dell’impegno in corso in Iraq, non avevamo abbastanza risorse da mandare di rinforzo”. “Come le cose in Iraq hanno iniziato ad andare meglio, è stato possibile mandare più truppe in Afghanistan”.
Passando all’Iran, se andasse avanti sulla strada del nucleare militare, le conseguenze per tutta la regione, e non solo, sarebbero catastrofiche. In primo luogo sarebbe un passo aventi verso la proliferazione nucleare, innestando una corsa verso la bomba da parte di tutte le nazioni dell’area e in primo luogo dell’Arabia Saudita, destabilizzando ulteriormente una regione “non certo caratterizzata da stabilità”. Il modo migliore per confrontarsi con questa sfida è far capire agli iraniani che il possesso del nucleare, invece di garantire più sicurezza, renderebbe la Persia un paese anch’ora più insicuro di quanto attualmente si senta. Non bisogna dimenticare infatti che il cardine su cui si innesta tutta la politica di sicurezza dell’Iran è la percezione paranoica di isolamento. Paese persiano tra gli arabi, sciita tra sunniti, circondato alla sua nascita da regimi ostili, per di più in possesso di armi nucleari come il Pakistan, aggredito dall’Irak di Saddam in pieno cambiamento rivoluzionario, Tehran non ha ancora metabolizzato l’esperienza di quel periodo, nonostante siano scomparsi, grazie all’intervento del "Grande Satana", sia il regime dei Talebani che il sunnita e laico Saddam.
I modi scelti dall’amministrazione Obama per raggiungere questo obiettivo sono prima di tutto diplomatici ma non escludono il ricorso alle sanzioni economiche (vista anche la dipendenza iraniana dalle importazioni di benzina che non riesce a raffinare in proprio). L’altro strumento che gli Stati Uniti useranno – ha aggiunto Gates – è rappresentato dall’ aumento della pressione che gli alleati degli USA nella regione faranno verso il regime degli ayatollah. “Quanto più i Paesi arabi rafforzeranno i rapporti di amicizia fra loro e con gli Stati Uniti – ha aggiunto – saranno un forte segnale agli iraniani che la strada da loro scelta non conduce verso una maggiore sicurezza ma in realtà la indebolisce”. Il Segretario è stato anche esplicito nel riconoscere il diritto dell’Iran a sviluppare tutta la tecnologia nucleare se legata ad usi civili e in base al Trattato dell’ AIEA (a cui l’Iran aderisice), ma questo obiettivo è subordinato al rispetto dello stesso, circostanza che prevede la piena collaborazione con gli ispettori della stessa Agenzia internazionale per l’energia atomica, realtà che adesso non si verifica.