Khatami, il volto del leader che ha illuso gli iraniani e continua a ingannare l’Occidente
29 Settembre 2007
di Elio Bonazzi
La
genesi del fenomeno Khatami non è da ricercarsi nelle elezioni da lui
nettamente vinte nel 1997. Il complesso di vicende ed eventi storici che
portarono all’ascesa di questo mullah, dalla barba curata e dall’aspetto raffinato,
alla presidenza della Repubblica islamica inizia infatti con una strage,
perpetrata nel 1992 a Berlino da agenti della teocrazia iraniana. Il 17
settembre 1992, il leader curdo-iraniano in esilio in Germania Sharafkandi si
trovava in una riunione con altri oppositori al ristorante greco Mykonos,
quando, verso le 11 di sera, due assassini fecero irruzione, armati di fucili
mitragliatori UZI, sparando all’impazzata sul tavolo degli oppositori.
Sharafkandi ed altre due persone morirono
all’istante, un quarto curdo-iraniano morì poco dopo il ricovero in ospedale.
Durante gli anni Ottanta, molti oppositori della Repubblica islamica che
vivevano in Europa erano stati giustiziati in modo sommario da agenti del MOIS,
il famigerato Ministero dell’Intelligence e Sicurezza iraniano. Le autorità dei
vari stati europei avevano per lo più considerato gli assasini politici avvenuti
sul loro territorio come un fatto interno iraniano, chiudendo un occhio nella
migliore delle ipotesi, ma talvolta addirittura rispedendo gli agenti del MOIS,
che in qualche occasione erano stati catturati dopo il delitto, a Teheran con
biglietti di prima classe; il tutto nella speranza di non creare incidenti
diplomatici che avrebbero potuto avere ripercussioni negative per i lucrativi
contratti petroliferi con l’Iran.
L’indignazione
pubblica che seguì la strage del ristorante Mykonos costrinse per la prima
volta le autorità tedesche a prendere sul serio ciò che era avvenuto, dando il
via a un’indagine che avrebbe portato, nel giro di pochi anni, ad incriminare
il leader supremo della Repubblica Islamica Alì Khamnei e l’allora presidente Akbar
Hashemi Rafsanjani come i mandanti della strage. Al processo, concluso a
Berlino nell’aprile 1997, furono condannati alcuni esecutori materiali della strage,
ma, fatto ben più importante, fu spiccato un mandato di cattura internazionale
per Khamnei, Rafsanjani, Ali-Akbar
Velayati ed Ali Fallahiyan, al’epoca
rispettivamente ministro degli Affari Esteri e ministro dell’Intelligence.
Quattro diplomatici iraniani furono espulsi dalla Germania per attività di
spionaggio e l’ambasciatore tedesco a Teheran fu richiamato in patria per
consultazioni. Alcuni altri stati europei minacciarono di fare altrettanto,
isolando diplomaticamente la Repubblica islamica per la prima volta dalla
rivoluzione del 1979. Neppure la fatwa emessa contro Salman Rushdie era
riuscita a danneggiare l’immagine dell’Iran quanto l’affaire Mykonos.
A
partire dagli anni Ottanta, i rapporti di Teheran con i vari stati europei si
erano basati su un cinico baratto: petrolio e gas a prezzi fortemente ridotti
in cambio di legittimità internazionale. Il tutto condito con vari traffici
d’armi organizzati con il beneplacito degli europei che avevano dotato le forze
armate khomeiniste di armi sofisticate, in grado di opporsi alle truppe di
Saddam durante la sanguinosa guerra tra Iran e Iraq. Nel 1997, tuttavia, le
relazioni tra gli ayatollah e gli europei avevano raggiunto il punto di
rottura, ed era dunque necessario un drastico cambio di rotta. Gli europei non
potevano tollerare che si verificassero episodi come quello accaduto in
Germania. Teheran aveva disperato bisogno di rifarsi una verginità politica da
spendere sulla scena internazionale per riacquisire uno status di partner
accettabile.
E’
in questo clima che si arriva alle elezioni del maggio 1997, in quella che
venne chiamata “la primavera di Teheran”, con evidente riferimento alla Praga
di Dubcek nel 1968. La gioventù iraniana stava vivendo un periodo di rinascita
culturale dopo gli anni della guerra con l’Iraq, vivendo con crescente
insofferenza la repressione della libertà da ad opera della polizia, che si
abbatteva sulle ragazze in minigonna, con il rossetto e con troppi capelli
visibili da sotto il velo (il famigerato “ciador”), ed i ragazzi che ascoltavano
in pubblico la musica occidentale ed il rap
recitato in farsì. Non solo i giovani, ma vasti strati della società iraniana
domandavano riforme e l’uscita dal clima di sacrificio rivoluzionario,
perpetuato nei lunghi anni di guerra, per godere di una ritrovata stabilità che
avrebbe dovuto porre le basi per una crescita economica agognata da tutti.
Il
Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione aveva posto il veto su 234 candidati
alla presidenza perché non in possesso di adeguate credenziali islamiche. I
candidati in lizza erano rimasti quattro, di cui due, Reyshahri e Zavarei,
senza speranza alcuna, in quanto sconosciuti e senza appoggi né da parte dell’establishment teocratico né dell’élite economica di Teheran.
Restavano a contendersi la presidenza Ali Akbar Nateq-Nouri,
il presidente del Parlamento e numero tre della gerarchia (dopo il leader
supremo Khamnei ed il presidente Rafsanjani), e Mohammad Khatami. Nateq-Nouri
era il candidato ufficiale di Khamnei, un ultra-conservatore di aspetto e di
sostanza, che sembrava destinato ad una facile vittoria. Robin Wright, il
corrispondente da Teheran per il “Los Angeles Times”, scrisse che mai prima di
quella campagna elettorale le autorità ufficiali iraniane erano state così
smaccate nel sostenere un singolo candidato a discapito di tutti gli altri. Valutando
oggi quella situazione a distanza di anni, e senza rischiare di scadere in
facili dietrologie, può sembrare verosimile che l’appoggio così sfacciato che
un establishment, non all’apice della
popolarità, ha accordato ad un candidato decisamente percepito come
ultra-conservatore ed avverso ad ogni riforma, fosse creato ad arte per
favorire Khatami.
Ma
chi era Khatami? Contrariamente a quanto riportato dalla stampa occidentale del
periodo, che lo voleva enigmatico e sconosciuto fino al momento della vittoria
elettorale, Khatami non era una faccia nuova nel panorama politico iraniano.
Nel 1992 era stato costretto a dimettersi dalla posizione di ministro della
Cultura e Guida Islamica, dove era incaricato di attuare le politiche di censura
religiosa nei confronti dell’arte e della cultura. All’inizio del suo mandato
si era rivelato uno zelante funzionario che imponeva la censura secondo i più
rigidi canoni di comportamento islamico. Col trascorrere degli anni, tuttavia,
aveva oltremodo ammorbidito le sue posizioni, suscitando le ire del parlamento,
saldamente nelle mani della fazione più conservatrice guidata da Nateq-Nouri.
Rafsanjani gli aveva permesso, fatto raro nella politica del tempo, di rassegnare
le dimissioni da ministro come gesto di compromesso nei confronti dell’ala
dura, ma lo aveva premiato nominandolo direttore della biblioteca nazionale.
La
popolarità di Khatami cominciò a crescere in modo vertiginoso dopo un famoso
dibattito elettorale in cui eluse la domanda sulla legittimità della fatwa
contro Salman Rushdie. Mentre Nateq-Nouri aveva affermato che era dovere di
ogni buon musulmano eliminare Rushdie, Khatami aveva usato tutta la sua
capacità dialettica per sottrarsi alla domanda-trappola del giornalista,
affermando nel corso dello stesso dibattito che era tempo di rilassare censura e
rigidezza dei costumi. Il fatto di essere stato costretto alle dimissioni nel
1992 lo rendeva estremamente credibile agli occhi dell’elettorato. La campagna
elettorale durò solo dodici giorni, e l’accesso ai media fu seriamente
limitato, ed in favore di Nateq-Nouri. Nondimeno, anche se Khatami non poteva
competere in numero di spot elettorali, le sue schiaccianti vittorie nei
dibattiti televisivi avevano chiaramente dimostrato che Nateq-Nouri non era in
grado di eguagliare le sue superiori capacità intellettuali. Una coalizione di
interessi variegati, e talvolta in contraddizione tra loro, si veniva formando
dietro il candidato Khatami. Tale coalizione comprendeva aree tradizionali di
sinistra, inclusi alcuni tra i sequestratori degli ostaggi americani nel ’80-’81,
ed anche elementi dell’élite economica che volevano uno stato più aperto nei
confronti dell’impresa privata e favorevole agli investimenti stranieri; le
donne ed i giovani formarono inoltre lo zoccolo duro della base elettorale khatamista.
La sua
vittoria elettorale fu salutata in Occidente come un evento di portata storica.
A Khatami venne dato il soprannome di “Ayatollah Gorbaciov”, anche se tecnicamente
il neo-presidente era ed è solo un Hojatoleslam, un gradino inferiore al titolo
di Ayatollah. La massiccia campagna internazionale di “beatificazione” di
Khatami era soprattutto a beneficio del pubblico occidentale, che poteva sentirsi
rassicurato: intrattenere rapporti economici con Teheran era di nuovo lecito. L’Iran
non era più uno stato paria della
comunità internazionale, ma un paese in grado di esprimere un riformatore
capace di uscire dal clima rivoluzionario instaurato da Khomeini, e di traghettare
il suo popolo verso un futuro di moderazione e cooperazione con l’Occidente. La
strage del ristorante Mykonos si poteva quindi dimenticare, la Germania
ristabilì immediatamente le relazioni diplomatiche, e gli altri paesi europei
non diedero seguito alle minacce di ritirare a loro volta gli ambasciatori,
minacce fatte in sostegno alla Germania solo poche settimane prima delle
elezioni iraniane. L’Iran aveva completato in modo repentino e magistrale l’operazione
di restyling della sua immagine,
operazione che si era resa necessaria per proseguire gli affari commerciali con
i partner europei, evitando loro l’imbarazzo di dover giustificare all’opinione
pubblica il dilemma morale di mantenere artificialmente in vita una dittatura
dal carattere ripugnante per mero tornaconto economico.
La
“luna di miele” tra l’Occidente e Khatami durerà, però, poco più di due anni,
fino all’infausto luglio del 1999, quando il massacro degli studenti
dell’università di Teheran segnerà la fine del sogno riformatore. Ma il luglio
del 1999 non arrivò all’improvviso. I due anni che lo hanno preceduto sono
infatti densi di omicidi politici di dissidenti ed intellettuali, di repressione
e censura (con la chiusura di numerose testate giornalistiche), in una escalation di violenza che viene
continuamente insabbiata e sottaciuta dagli organi di stampa occidentali,
ansiosi di perpetuare l’immagine positiva di un Khatami capace di riformare
l’Iran e di condurlo nel ventunesimo secolo.
È
difficile stabilire se Khatami fosse un sincero riformatore – seppure senza superare
il sistema teocratico – ostacolato dall’ala dura di Khamenei, o se si fosse
prestato fin dall’inizio ad una sorta di gioco delle parti, recitato ad arte per
ingannare l’Occidente. Il 25 maggio 1998, una manifestazione di circa 2 mila studenti
nel parco Laleh di Teheran subì l’assalto di elementi di Ansar-e Hezbollah,
milizia legata all’ala ultra-conservatrice della teocrazia. I manifestanti
chiedevano che anche le donne e i laici potessero far parte dell’Assemblea
degli Esperti, l’organismo che elegge il leader supremo (o guida spirituale).
Volevano anche che fosse imposto un limite al potere del Consiglio dei
Guardiani, l’organismo che determina le credenziali islamiche dei candidati
alle elezioni. Durante i tafferugli, circa 20 studenti furono feriti, alcuni
seriamente, ed il giorno successivo il ministro degli Affari Interni, Abdallah
Nouri, annunciò che Khatami intendeva farsi portatore delle riforme chieste
dagli studenti, ed avrebbe chiesto al parlamento di limitare il potere del
Consiglio dei Guardiani. La fazione di Khamnei non poteva tollerare che ciò
avvenisse, e prima che Khatami potesse presentare le sue richieste, il ministro
Nouri fu rimosso con un colpo di mano orchestrato in parlamento dalla fazione di Khamnei. Questo
accaduto va a sostegno dell’idea di un Khatami genuino riformatore, ma ostaggio
del sistema.
Ma
che dire dell’omicidio politico di Darioush e Parvaneh Forouhar? Darioush
Forouhar era stato il fondatore, nel 1951, del pan-iranista “Partito della
Nazione Iraniana” (Hezb-e Mellat-e Iran) ed aveva appoggiato Mossadek contro lo
Shah. Durante il Governo Rivoluzionario Provvisorio del 1979, guidato da Mehdi
Bazargan, Forouhar era stato ministro del Lavoro. Nazionalista e laico,
Forouhar era una figura carismatica capace di aggregare un largo consenso per
il suo passato di oppositore dello Shah; aveva deciso di operare in Iran, nei
rigidi limiti imposti dalla teocrazia, pur di non scegliere l’esilio. Il 21
novembre 1998, uomini del famigerato MOIS fecero irruzione nella sua residenza,
uccidendolo insieme alla moglie in un modo così brutale da renderne la
descrizione troppo raccapricciante per queste pagine. Poche ore dopo l’omicidio
dei coniugi, ma prima che la notizia fosse divulgata a livello nazionale,
Khatami, in un comizio a Bonab, cittadina a sud di Tabriz, attaccò frontalmente
i dissidenti laici del regime, avvertendo che gli oppositori che rifiutavano la
dottrina del potere assoluto clericale non sarebbero stati più tollerati. È
certo che al momento del suo discorso a Bonab, Khatami già sapesse dell’omicidio
Fourouhar, ed il suo discorso sembrerebbe come una rivendicazione politica
dell’omicidio, visto che, senza citarli per nome, Khatami aveva descritto nel
dettaglio il ruolo che nella società iraniana era svolto dai coniugi Forouhar.
Questa
ambiguità seguirà Khatami durante tutta la sua presidenza, e raggiungerà il suo
apice in occasione del massacro degli studenti dell’8 luglio 1999. Descrivere nei
particolari le dinamiche di quel giorno sarebbe troppo lungo. In estrema sintesi,
l’accaduto fece passare Khatami da eroe a tiranno nel giro di una settimana.
Eroe perché alcuni elementi a lui fedeli, sia della polizia che dell’apparato,
avvertiti in anticipo del raid contro gli studenti, si fecero trovare ai
dormitori dell’Università nel tentativo di fermare le milizie. E poi perché gli
organi di stampa amici, come Neshat, Khordad e Sob-e Emrooz, il giorno dopo denunciarono
la repressione degli “aiutanti di Hezbollah” (Ansar-e Hezbollah) e presero le difese
degli studenti. Tiranno, invece, perché non appena la protesta, nei giorni
successivi, dai dormitori ed i cortili dell’Università si estese all’esterno,
anche nelle zone limitrofe, d’accordo con l’ala dura di Khamnei, Khatami optò
per la repressione più brutale, che si trascinò per settimane con numerosi studenti
arrestati, torturati e anche giustiziati senza processo, o in seguito a processi
farsa, dove il condannato era costretto a confessare di essere un agente al
servizio del “Grande Satana”. Khatami si è sempre mosso nell’ambiguità, ma ogni
volta che gli eventi storici lo hanno costretto a operare una scelta, si è
sempre schierato con il nocciolo duro della teocrazia.
Nei
suoi otto anni di presidenza, quattro giornalisti furono uccisi, mentre di uno
si persero le tracce; più di 150 giornali (senza contare quelli studenteschi)
vennero messi fuorilegge, e più di 200 giornalisti ricevettero un mandato di
comparizione, furono detenuti ed interrogati, e 52 di loro condannati a pene
tra i 3 mesi e 14 anni di reclusione.
Nonostante
questo record non certo degno di lode, Khatami continua a godere di una
immeritata fama e popolarità, e fa collezione di lauree honoris causa in giro per l’Europa. Il suo leitmotif, l’argomento che usa per farsi invitare come esperto alle
varie conferenze internazionali, è il “Dialogo tra Civiltà”, un forum in cui
discutere e scambiare idee tra varie e differenti culture, con lo scopo di
attenuare le divergenze e prevenire i conflitti. Nobile intento, peccato però che,
citando Samuel Johnson, potremmo dire che “il
lavoro di Khatami è al tempo stesso originale ed interessante. Sfortunatamente
la parte originale non è interessante, e la parte interessante non è originale”.
Nel 1976, prima della rivoluzione islamica, fu infatti l’imperatrice Farah
Diba-Pahlavi a dare origine e a finanziare l’organizzazione chiamata “Sazman Gofte-gouye Farhangha”, che tradotto letteralmente significa “Dialogo di Civiltà”.
Il professore Dariush Shaygan fu chiamato a dirigerla, ed il primo seminario
internazionale, tenuto nel 1978 a Teheran, dal titolo “L’Impact Planétaire de la Pensée
Occidentale, rend-il possible le Dialogue des Civilisations”, vide
la partecipazione di paesi come Francia, Giappone ed Egitto. Saggi accademici
sull’evento furono pubblicati in Francia nei mesi successivi.
Naturalmente,
le attività dell’organizzazione furono sospese a tempo indeterminato con la
rivoluzione islamica. Ma nel maggio 1999 un simposio dal titolo “Dialogo tra
civiltà, un nuovo paradigma” fu organizzato negli Stati Uniti dalla prestigiosa
Columbia University con i finanziamenti dell’Iran. Khatami si era così
appropriato dell’idea avuta da Farah Diba 23 anni prima, per rivenderla come
nuova, senza memoria del ruolo svolto dall’imperatrice. Non solo Khatami si
macchiò di plagio, ma su questo plagio ha poi costruito una fulgida carriera che
gli è valsa prestigio internazionale in ambito politico ed accademico, con la
possibilità, in casa, di ottenere, attraverso appropriazioni indebite, ingenti
somme di denaro.
Indicativo
del personaggio, infine, è come questo abbia tentato di “sistemare” se stesso
ed i suoi accoliti proprio l’ultimo giorno del suo mandato presidenziale. Il 2 agosto
2005, dopo la sconfitta alle elezioni di giugno contro Ahmadinejad, come ultimo
atto amministrativo, Khatami aggiunse due organizzazioni a quelle già commissionate
e sponsorizzate dal regime, una chiamata “Dialogo tra Civiltà”, l’altra
“Fondazione Baaraan”, elargendo loro, con decreto presidenziale, un’astronomica
somma di denaro (circa 150 milioni di dollari). Tuttavia, il tentativo di
assicurare a se stesso ed ai suoi seguaci più stretti una “pensione decorosa”
non ha vita lunga. Il 19 ottobre della stesso anno, la nuova amministrazione
formata dopo le elezioni di giugno e controllata da Ahmadinejad, dichiarò illegale
il budget dei due enti cari a Khatami, revocando il finanziamento tra le accorate
proteste di Khatami e dei suoi seguaci.
Oggi,
l’ex presidente iraniano ha perso la popolarità interna di un tempo, è
costantemente ridicolizzato, sia da coloro che avevano genuinamente creduto che
potesse realmente riformare il sistema, sia dall’ala intransigente
dell’establishment teocratico, che lo accusa di aver concesso troppo all’Occidente
all’inizio delle trattative sul nucleare (per esempio, la temporanea cessazione
dell’arricchimento d’uranio). A tale calo verticale di consensi in patria,
corrisponde, paradossalmente, un aumento della sua statura internazionale
assolutamente ingiustificato, e dovuto più che altro all’ostinazione di certe
nazioni europee, che ancora si illudono che con l’Iran sia possibile una
soluzione negoziale, e che la fazione intransigente della teocrazia sarà costretta
a rimettere in gioco i cosiddetti “riformisti”, dalle migliori credenziali per
trattare con l’Occidente.