La commedia degli equivoci sui fondi statali destinati agli atenei privati
09 Luglio 2012
Pare che la notizia sia certa, il governo rinuncia al taglio di 200 milioni di euro alle Università statali che era destinato a favorire gli atenei privati. In realtà la stampa parlava di “scuole non statali” in genere, ma credo che l’interpretazione corretta sia quella appena menzionata. Urgono dunque alcune considerazioni.
L’entità dello scampato taglio era enorme, e avrebbe reso ancora più asfittico l’FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario) che costituisce gran parte del budget su cui le Università statali possono contare annualmente. Si rischiava, in parecchie occasioni, la chiusura totale, in altre era messa in pericolo la possibilità di pagare gli stipendi al corpo docente e al personale tecnico-amministrativo. In ogni caso ne avrebbero sofferto in maniera rilevante i progetti di ricerca scientifica.
Tutto ciò mentre in altri Paesi la spesa per la ricerca, che continua ad avere l’Università quale principale punto di riferimento, è invece aumentata. La ricerca italiana sarebbe stata ulteriormente penalizzata in un contesto – come quello europeo e mondiale – dove essa è considerata la chiave di volta del futuro. Facile anche immaginare la probabile crescita della “fuga dei cervelli”, da lungo tempo piaga nazionale.
E’ tuttavia errato pensare che il pericolo sia finito. In realtà incombe nel 2013 un altro taglio ben più consistente, superiore – pare – ai 400 milioni di euro, deciso dall’ex ministro Tremonti e già approvato dal Parlamento.
Ma, per tornare all’argomento iniziale, risulta quanto meno strano che una simile proposta sia venuta in mente a un governo tecnico i cui membri – a partire dal premier – provengono in gran parte proprio da atenei privati. Mi pare una scelta di cattivo gusto, per usare un eufemismo. Si potrebbe addirittura parlare di interessi privati in atti d’ufficio, per fortuna solo ipotetici vista la conclusione della vicenda.
Un fatto essenziale (e altrettanto strano) deve tuttavia essere sottolineato. Se una Università si definisce “privata”, sarebbe lecito attendersi che reperisse i fondi non dallo Stato, bensì dal settore privato.
Considerazione di buon senso, ma del tutto teorica. In realtà i cosiddetti atenei privati si spartiscono già una buona fetta del Fondo di Finanziamento Ordinario di provenienza statale. Abbiamo dunque un vero e proprio paradosso. Lo Stato italiano finanzia non solo gli Atenei pubblici, ma pure quelli che nominalmente pubblici non sono.
A questo punto perché mantenere ancora tale distinzione, se è fasulla? Meglio dire che, in Italia, l’Università privata non esiste. Sarebbe un contributo alla chiarezza e metterebbe finalmente in piena luce un’anomalia che è tutta nostra.
Lungi da chi scrive l’intenzione di nascondere i tanti mali dei patrii atenei. Scarsa efficienza, nepotismo, elefantiasi burocratica, e via dicendo. Cerchiamo però di non gettare il bambino assieme all’acqua sporca. Si dà il caso che, nel complesso, il sistema universitario italiano sia finora riuscito a reggere il confronto almeno in ambito europeo. Lo dimostra l’alto numero di studenti stranieri che ogni anno si iscrivono ai nostri atenei.
Non ci si lasci, a questo proposito, ingannare da alcune classifiche internazionali che vengono per lo più compilate in Cina. Anche quelle classifiche sono in parte fasulle come la summenzionata e fantomatica linea di divisione tra atenei pubblici e privati in Italia.
Se si vuole giungere – come molti sospettano – a una privatizzazione graduale del nostro sistema di istruzione superiore il governo dovrebbe rivelarlo in modo chiaro e trasparente, senza spacciare la scelta come virtuosa a priori.
E poi – diciamolo con franchezza – che razza di privatizzazione sarebbe mai quella che ha bisogno dei fondi statali per essere realizzata? Una commedia degli equivoci, che speriamo venga smascherata e bloccata in tempo. In gioco non è tanto il destino di questo o quell’ateneo, bensì il futuro del Paese intero.