La Russia e la gestione delle crisi: da Chernobyl alla guerra in Georgia
03 Ottobre 2009
Il recente scoppio della centrale elettrica siberiana, il primo anniversario della guerra con la Georgia, il quinto della strage di Beslan e il nono della tragedia del Kursk (chissà perché le disgrazie in Russia tendono a concentrarsi in estate…) inducono ad una riflessione sul modo russo di gestire le più diverse crisi. La più emblematica porta il nome di Chernobyl, dove il 26 aprile 1986, nella centrale nucleare intitolata a Vladimir Lenin, nel corso di un azzardato test di sicurezza, un brusco aumento della potenza e della temperatura del nocciolo di un reattore innesca una catastrofica esplosione. Una nube di materiali radioattivi fuoriesce dal reattore, rendendo necessaria l’evacuazione di 336.000 persone. Nubi radioattive raggiungono tutta Europa. I primi operatori inviati sul posto sono equipaggiati con contatori Geiger e semplici mascherine di tipo chirurgico, proprio l’ideale per un ambiente dove le radiazioni hanno un’intensità un miliardo di volte superiore alla norma: i poveracci sopravvivono solo poche ore. Il governo sovietico inizialmente cerca di tenere nascosta la notizia: la parola d’ordine è “Niet problema!”. Il rapporto ufficiale parla di 65 morti accertati e altri 4.000 presunti in un arco di 80 anni, ma questi dati sono fortemente contestati da “Greenpeace” che di decessi, in un arco di 70 anni, ne stima 6 milioni.
Il 12 agosto 2000 Putin è in vacanza sul Mar Nero. Alle 11.30, nel Mar di Barents, avvengono due esplosioni a bordo del sommergibile nucleare “Kursk” e i contatti radio si interrompono. L’indomani il relitto viene localizzato sul fondo del mare e il 14 agosto ha luogo il primo tentativo di salvataggio. Il 16 agosto, ben quattro giorni dopo la tragedia, il governo russo, che fino a quel momento non ha detto una parola, invoca l’aiuto internazionale. Il 17 agosto si registra il primo intervento di Putin, che però continua a restare in vacanza e dichiara che la Russia ha tutto ciò che le serve, dichiarazione indirettamente rivolta alla Norvegia, che ha appena offerto aiuto. Solo il 18 agosto, 6 giorni dopo la tragedia, Putin rientra dalle vacanze.
La sera del 23 ottobre 2002, durante il secondo atto dello spettacolo teatrale “Nord-Ost”, nel teatro ubicato nel quartiere Dubrovka di Mosca, 42 membri di un commando capeggiato da Movsar Barayev e composto principalmente da donne fa irruzione nel teatro prendendo in ostaggio circa 850 persone. I sequestratori minacciano di uccidere gli ostaggi se non verrà pagato un forte riscatto. Così almeno dicono le autorità, ma è una menzogna. Una videocassetta entrata in possesso dei media svela il vero motivo del sequestro: la presenza delle forze russe in Cecenia. Ecco un brano del messaggio: “Ogni nazione ha diritto al suo destino. La Russia ha sottratto questo diritto alla Cecenia e oggi vogliamo rivendicare questi diritti, che Allah ci ha dato, nella stessa maniera in cui li ha dati a qualsiasi altra nazione” … abbiamo deciso di morire qui, a Mosca. E porteremo con noi le vite di centinaia di peccatori”.
Il governo russo, nel corso delle trattative cui partecipa anche la giornalista Anna Politkovskaya, offre la possibilità ai terroristi di lasciare la Russia evitando una strage, ma la mattina del 26 ottobre le forze speciali dei servizi segreti russi FSB, l’ex KGB, prendono d’assalto l’edificio. L’ostaggio Anna Andrianova, una corrispondente della “Moskovskaya Pravda”, chiama in diretta gli studi radio dell’emittente “Eco di Mosca”: “Ci stanno asfissiando! …. Supplichiamo di non essere avvelenati! … Se potete fare qualcosa! Il nostro governo ha deciso che nessuno deve lasciare questo posto vivo!”. Effettivamente, nell’impianto di condizionamento dello stabile viene pompato il Fentanyl allo scopo di “neutralizzare” sbrigativamente sia i terroristi che gli ostaggi. Nel corso del raid, i soldati delle forze speciali freddano uno per uno i sequestratori intontiti dal gas. Drammatiche fotografie mostrano una fila di donne in chador nero, tutte sedute allineate sulle poltrone del teatro, tutte con un foro in fronte. Riguardo a questo metodo sbrigativo, un membro del commando Alpha Group dichiara ai media: “Sì, capisco che è crudele, ma quando ci sono due chilogrammi di esplosivo al plastico legati ad una persona, non vedo nessun altro modo per rendere innocui i terroristi”.
Inizia come una giornata di festa il 1° settembre 2004 in Ossezia del nord, il giorno della riapertura delle scuole. Quel giorno, per tradizione, gli scolari vestono la divisa e portano fiori e regalini alle maestre. Invece nella scuola media di Beslan accade il finimondo. Un commando di terroristi ceceni e arabi, 32 in tutto, fra i quali alcune donne, assalta la scuola e prende in ostaggio un numero enorme di bambini, genitori e insegnanti: 1.200 in tutto. Gli insegnanti si meravigliano nel riconoscere nei terroristi gli stessi “operai” che nei giorni precedenti hanno effettuato lavori di ristrutturazione nella scuola: falsi gli operai e falsi i lavori, sono veri solo gli esplosivi portati in palestra e nei magazzini, accatastati con cura così come le armi. Putin anche stavolta è in vacanza, ma rientra subito a Mosca.
Il 2 settembre partono i negoziati coi sequestratori, arrivano gli spetsnaz e Putin parla alla nazione. Il 3 settembre scoppiano alcune bombe, le milizie locali sparano e gli spetsnaz (che causano più morti degli stessi terroristi) anticipano il loro assalto senza averlo pianificato. Alla fine, dopo il raid delle forze speciali, restano uccisi tutti gli ostaggi meno uno, catturato vivo (dubito sia rimasto in vita ancora a lungo), e metà degli ostaggi. 355 sono i morti accertati, di cui 20 fucilati subito dai terroristi e 335 morti nelle fasi convulse del raid. Gli USA esprimono solidarietà alla Russia, mentre l’Unione Europea, per mezzo della presidenza di turno olandese, non trova di meglio che “chiedere spiegazioni” alla Russia. Sì, proprio alla Russia, e dunque alla vittima, non al carnefice. Mosca, sdegnata, definisce “blasfemo” l’infelice passo europeo.
E veniamo alla guerra contro la Georgia nell’agosto 2008. Il casus belli va ricercato nei Balcani, quando il 17 febbraio 2008 il Kosovo dichiara l’indipendenza e la Russia, che vi si è sempre opposta, minaccia ritorsioni e scenari apocalittici: “Si aprirà un vaso di Pandora!”. Il 16 aprile Putin ordina ai suoi ministri di stabilire relazioni con le controparti delle repubbliche secessioniste georgiane dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. I vertici dell’Unione Europea e della NATO esprimono “profonda preoccupazione per la mossa russa”. Il 20 aprile viene sparato il “primo colpo” della nuova crisi caucasica: un aereo Mig-29 russo abbatte un velivolo senza pilota georgiano in volo sopra l’Abkhazia. Il 29 aprile la Russia invia truppe in Abkhazia per fronteggiare “un eventuale attacco georgiano” e a metà giugno le tensioni nelle due repubbliche separatiste aumentano. L’8 luglio ecco la provocazione: quattro caccia russi sorvolano l’Ossezia del sud all’interno dello spazio aereo georgiano. Poi si passa ai fatti: il 16 luglio iniziano pesanti cyber-attacchi russi contro i siti internet delle istituzioni statali georgiane. Nella seconda metà di luglio la Russia conduce un’esercitazione militare (denominata “Caucaso 2008”) con 8.000 soldati presso il confine georgiano. Lo scenario prevede la risposta ad un ipotetico attacco georgiano contro le due province separatiste. Il ministero degli esteri georgiano protesta e denuncia la minaccia di invasione. A posteriori, l’esercitazione è stata la prova generale di quanto sarebbe accaduto l’8 agosto.
Il 1° agosto avvengono i primi scontri fra le truppe georgiane e le milizie sud-ossete, con scambi di colpi di artiglieria, che proseguono nei giorni successivi, finché il 7 agosto il presidente georgiano Saakashvili cede alle provocazioni, ordina la mobilitazione generale e le forze georgiane entrano in Sud Ossezia. L’8 agosto, mentre il mondo intero assiste alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Pechino, le truppe russe lanciano un attacco massiccio contro la Georgia. E’ il primo intervento armato russo al di fuori dei propri confini dopo l’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Facendosi paladina dell’autodeterminazione di quelle due province, la Russia sembra quasi dire: “Ogni nazione ha diritto al suo destino. La Georgia ha sottratto questo diritto ad Abkhazia e Ossezia del sud e oggi vogliamo rivendicare questi diritti, che Dio ci ha dato, nella stessa maniera in cui li ha dati a qualsiasi altra nazione”. Non l’avevamo già sentita, questa frase?
In conclusione, la Russia a cavallo dei due millenni ha dovuto affrontare crisi militari e civili, previste ed impreviste, e lo ha fatto con professionalità, coraggio e determinazione. Ma talvolta il suo comportamento ha anche evidenziato preoccupanti aree di improvvisazione, ruvidezza, sospetto, orgoglio e pregiudizio, tutela ad oltranza dei segreti di pulcinella, autolesionismo, mancanza di previsione e di coordinamento, scarso rispetto della vita umana, brutalità stalinista mai morta, insomma tutto il “meglio” delle sue eredità zarista e sovietica, e non è così che si gestiscono le crisi del ventunesimo secolo.
La migliore forma di gestione delle crisi è la loro prevenzione allo scopo di non farle accadere. Ma quando accadono, anziché rispolverare le procedure del kappagibbì, molto meglio sarebbe mettere mano al trattato istitutivo del Consiglio NATO-Russia, quello firmato a Pratica di Mare nel 2002, e collaborare nei campi previsti. Le aree di azione comune, è bene ricordarlo, riguardano, tra l’altro “…la lotta al terrorismo, la gestione delle crisi, la cooperazione contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa, il controllo degli armamenti, le misure di fiducia reciproca, la difesa missilistica, la ricerca ed il salvataggio in mare…”. Guarda caso, proprio tutto quanto è realmente accaduto a Chernobil, nel Mar di Barents, al teatro Dubrovka, a Beslan e nel Caucaso.