La strategia auspicata dalla Nato è quella che l’Italia applica da sempre
22 Settembre 2009
di redazione
Tono drammatico, ma sfondo ottimista. La situazione è molto critica ma non tutto è perduto, sostiene il generale McChrystal, da giugno 2009 comandante in capo della missione Nato ISAF in Afghanistan, ma anche della missione USA Enduring Freedom, nelle 66 pagine di rapporto inviato al governo Usa. Due i punti fondamentali del rapporto: più truppe e un cambio di strategia.
La matematica in questo caso aiuta: in Afghanistan sono attualmente presenti circa 64mila militari della coalizione. La superficie del Paese è di 647.500 chilometri quadrati. Ciò significa un solo militare ogni 100 chilometri quadrati di territorio. Un paragone: nel sud del Libano, per la missione Unifil, sono presenti circa 12mila militari (escludendo quindi il personale civile che fa parte della missione Onu) per una superficie di circa 1100 chilometri quadrati: 10 soldati ogni chilometro quadrato. Ma l’Afghanistan non è il Libano del sud. In Afghanistan non si sa neppure bene contro chi si combatte. Non esiste “un” nemico, esiste un coacervo di oppositori che vengono raggruppati sotto la dicitura “insurgents”. Comprendono signori della guerra, con il loro stuolo di seguaci, spesso molto ben armati, trafficanti di oppio, trafficanti di droga, talebani veri e propri. Non si sa neppure bene dove stiano, perché sono dappertutto. Sono i talebani che provengono dal Pakistan e che in Afghanistan mantengono le loro ben salde roccaforti, sono trafficanti di droga che non vogliono mollare il controllo delle principali vie di comunicazione, sono gli insorgenti che si nascondono nei villaggi, nei piccoli centri, in mezzo alla gente. E che migrano, in piccoli gruppi di dieci, quindici persone, all’occorrenza, laddove c’è bisogno di attaccare.
Non ci sono linee di demarcazione, né trincee. La guerra è una guerra asimmetrica: gli insorgenti attaccano con imboscate, con ordigni artigianali improvvisati lungo le strade, con auto cariche di esplosivo guidate da un kamikaze che ha scelto il martirio.
Se l’obiettivo della missione è quello di riconquistare il controllo del territorio, di tutto il territorio, e riconsegnarlo al legittimo governo, allora sembra veramente una “mission impossibile”.
Perché la lenta e progressiva riconquista del controllo si ottiene standoci, sul territorio: mostrando la propria presenza, andando nei villaggi a parlare con gli “elders”, i capivillaggio, pattugliando, spingendosi in zone impervie e lontane, dove ancora capita che gli afghani vedano solo per la prima volta un militare della coalizione Nato. Dove a volte sparano perché sono convinti che siano ancora i russi.
Si ottiene, secondo l’attuale strategia Nato, addestrando le forze di sicurezza afghane e plasmandole per trasformarle da accozzaglia di ex combattenti mujaheddin in esercito moderno ed efficiente, in grado, un giorno, di garantire da sole la sicurezza del proprio Paese. Per fare tutto ciò, però, è necessario avere forze a disposizione. E forse, un militare ogni 100 chilometri quadrati è veramente troppo poco.
Altro punto fondamentale è il cambio di strategia. La frase secondo cui “la guerra in Afghanistan si vince conquistando i cuori e le menti degli afghani” non è un ritornello ormai svuotato di significato: è veramente la chiave di volta. Il popolo afghano è un popolo orgoglioso, leale, sincero e molto ospitale. Ma solo con chi li rispetta, rispetta la cultura, le tradizioni e, soprattutto, le gerarchie. In caso contrario gli afghani, che con la guerra hanno convissuto per decenni, sono in grado, senza troppi problemi, di trasformarsi in combattenti coraggiosi, sprezzanti della morte e molto, molto, spietati.
La missione Isaf, per vincere in Afghanistan, ha assoluto bisogno dell’appoggio della popolazione civile. Non di un atteggiamento di neutra indifferenza, ma del sostegno e della condivisione. Ha bisogno che la popolazione non sia più disposta a dare rifugio, cibo e acqua agli insorti, quando questi si spostano nei villaggi per preparare e poi sferrare un attacco, che scelga di non mettere più a disposizione le proprio case per nascondere armi ed esplosivi, che non avverta più gli insorgenti quando un convoglio della coalizione esce dalla base, transita su una strada o sta svolgendo un’operazione, che abbia il coraggio di ribellarsi al giogo e alle minacce delle bande locali, che identifichi i “buoni” nelle forze di sicurezza afghane, supportate dalla Nato. Che trovi, insomma, un’alternativa valida.
Per fare ciò, però, deve prima di tutto conquistare la fiducia degli afghani. E questo si fa, ancora una volta, mostrando la propria presenza, andando in giro, stabilendo contatti personali con la popolazione, portando avanti opera di ricostruzione, assistenza sanitaria e umanitaria.
A questo punto però una cosa andrebbe chiarita: a chi si riferisce questo rapporto. La strategia che McChrystal identifica come la chiave di volta, gli italiani la applicano da sempre. E non è la vecchia storia dell’ “italian way to peacekeeping”, fatta di soldati buoni che distribuiscono zainetti e caramelle. È la strategia della consapevolezze profonda che in quel Paese si è ospiti, come spesso ripetono i militari italiani presenti in Afghanistan, e come tali bisogna prima di tutto rispettare i “padroni di casa”, muoversi in punta di piedi, cercare il più possibile di comprendere e calarsi in una cultura pur così lontana da quella occidentale, non prendere iniziative autonome se non di concerto e in supporto alle forze di sicurezza afghane. E usare la violenza solo quando c’è da difendersi, diritto sacrosanto e innegabile, avendo ben chiaro un obiettivo prioritario: proteggere la popolazione civile.
Chi non l’ha ancora capito, invece, sono altri militari di altri contingenti. E questo gli afghani lo sanno, perché sanno molto ben distinguere i colori delle bandiere. Ma soprattutto non lo hanno capito gli americani, molto poco elastici quando improvvisamente scoprono che la cultura americana non è l’unica possibile.
O, ancora peggio, quando fanno sì che le operazioni della missione parallela, vera e propria missione di guerra, la Enduring Freedom, interferisca con i risultati ottenuti da Isaf.
Missione un po’ “invisibile”, melliflua e cangiante, che opera spesso sottotraccia, la Enduring Freedom, è una missione fatta di blitz, interventi-lampo e “vip-killing” che molto poco hanno a che vedere con l’avvicinamento alla popolazione civile auspicato dal gen. McChrystal e che causano parecchi problemi a chi invece lavora costantemente, e fin dall’inizio della missione, per conquistare la fiducia della popolazione.