L’America deve vincere in Afghanistan per evitare un altro 11 Settembre

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L’America deve vincere in Afghanistan per evitare un altro 11 Settembre

L’America deve vincere in Afghanistan per evitare un altro 11 Settembre

11 Settembre 2009

George Will ha osservato che l’Afghanistan è un posto poco indicato per costruire uno stato, Nicholas Kristof pensa che la guerra sia un affare ingannevole e sporco e Tom Friedman si strugge sull’ennesimo conflitto che una volta aveva appoggiato ma adesso minaccia il suo equilibrio psicosifisico. E dunque tre paladini di destra, sinistra e centro si sono uniti per erodere il supporto popolare a una guerra che, se perduta, sarebbe per gli Stati Uniti quello che la battaglia di Adrianopoli nel 378 dopo Cristo – chi vuole consulti un’enciclopedia – fu per l’Impero romano. Nei circa 1.100 anni che seguirono da allora, le cose non sono andate molto bene per la civiltà occidentale.

Esagero? Non credo. L’ovvia motivazione per la missione Nato in Aghanistan è che si tratta del Paese che ha ospitato al Qaeda quando pianificava gli attacchi dell’11 settembre. L’altrettanto ovvia confutazione è che niente sta comunque prevenendo al Qaeda dal preparare un nuovo attacco partendo da un altro paese, magari dal Pakistan, oppure dalla Somalia o dallo Yemen; e che gli Stati Uniti non hanno alcun piano per occupare fisicamente alcuno di quei paesi. Ergo, questo il ragionamento, dovremmo richiamare il nostro apparato militare e la nostra intelligence in modo da poter colpire quando e dove sarà necessario, lasciando l’Afghanistan alla sua tragica incompetenza istituzionale.

Il problema è che l’Afghanistan è importante non in quanto luogo dove fu preparato l’11 settembre. E’ importante perché è il luogo dove l’11 settembre fu immaginato. Nel 1979 l’Unione sovietica invase l’Afghanistan. Poco meno di dieci anni più tardi, i sovietici se ne andarono, umiliati e sconfitti. Dopo pochi mesi cadde il Muro di Berlino, e due anni più tardi l’Urss non c’era più. In Occidente si discute su chi ricadano i meriti maggiori di quegli eventi – Mikhail Gorbaciov, Ronald Reagan, papa Giovanni Paolo II, Charlie Wilson o chiunque altro infilò un ago nel pallone sovietico. Ma nella mitologia islamica, furono l’Afghanistan e i mujahedin arabi a far crollare la superpotenza dei senza-dio. E se una superpotenza può essere buttata giù, perché non l’altra?

Mettendola giù in modo semplice, il ritiro sovietico dall’Afghanistan fornì cospicuo nutrimento all’immaginazione che partorì l’11 settembre. Si immagini allora i pensieri che potrebbero venire in testa agli jihadisti, e le possibilità che si aprirebbero loro, se adesso fossero gli Usa a ritirarsi dall’Afghanistan. Primo pensiero: attacchi su una scala pari a quello dell’11 settembre non sono affatto fatali per il radicalismo islamico. Al contrario, nonostante le pesanti perdite sofferte dal movimento in questi otto anni, da una sconfitta degli Stati Uniti in Afghanistan emergerebbe un qualcosa che in Iraq è stato negato: una monumentale vittoria politica e ideologica grazie alla quale si potrebbe reclutare una nuova schiera di infervorati jihadisti. Ergo, ulteriori attacchi sul suolo americano potrebbero generare, sul lungo termine, analoghi benefici.

Secondo: gli Stati Uniti non hanno lo stomaco per combattere una lunga guerra di controguerriglia. Ergo, arrendersi o pervenire a un accomodamento politico di fronte a un apparente successo militare Usa non ha importanza; se resisti abbastanza a lungo, loro se ne andranno e tu vinci. Terzo: gli Usa non sono preparati a difendere i propri referenti nel terzo mondo, qualora credano che quei referenti sono moralmente discutibili. E’ già accaduto con il Vietnam del sud di Nguyen Van Thieu, è accaduto con lo Scià di Persia e, se gli Stati Uniti lasceranno l’Afghanistan, accadrà anche al criticabilissimo Hamid Karzai. Ergo, altri alleati degli americani nel mondo musulmano che appaiano traballanti o dubbi – per esempio l’Algeria, o, certamente, l’Arabia Saudita – sono obiettivi primari di un nuovo assalto.

Quarto: un’America che non abbia lo stomaco di sopportare una guerra relativamente leggera come quella afgana, in cui le perdite non sono che una frazione di quelle sofferte durante il periodo più intenso della guerra in Iraq, avrà ancora meno stomaco per guerre più dure. Ergo, si dovrebbero compiere i più strenui sforzi per destabilizzare e, cosa per niente campata in aria, prendere il controllo del Pakistan, un paese che – come sostiene lo stesso Will – “in questo momento è importante”.

E da qui, le possibilità si moltiplicano. Il ritiro dall’Afghanistan, e la conquista talebana di Kandahar e magari di Kabul, sprofonderebbero l’Afghanistan in una guerra civile infinitamente più sanguinosa dell’attuale. Il ritiro porterebbe Islamabad ad abbandonare la sua guerra al terrorismo e scendere a patti con le milizie locali, come già fece negli anni ’90. Solo che, questa volta, non si riuscirebbe a capire chi comanda e chi esegue. Il ritiro darebbe ai jihadisti la libertà di spostare il fronte in India, con tutti gli scenari da incubo che ciò comporta. Il ritiro inviterebbe i resti di al Qaeda in Iraq – già in fase di ripresa – a raddoppiare i loro sforzi, e a farlo con la convinzione che gli Stati Uniti hanno deciso di disimpegnarsi in Medio Oriente.

E’ solo una lista parziale. L’alternativa è una lotta sanguinosa per difendere e sviluppare uno sventurato e spesso corrotto governo in una terra dimenticata da Dio e popolata da gente spesso sgradevole – sia pure con tante e lodevoli eccezioni. Non è la battaglia più nobile, e nessuna nazione sana di mente sceglierebbe di farla. Il fatto è che non l’abbiamo scelto e, se manteniamo la calma, possiamo vincere. Altrimenti, la conseguenza potrebbe essere cenere che di nuovo vola per le nostre strade, qualcosa da ricordare alla vigilia di un altro anniversario dell’11/9.

Tratto da The Wall Street Journal

Traduzione di Enrico De Simone