Le fondazioni sono una risposta (e valida) alla crisi dell’università italiana

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Le fondazioni sono una risposta (e valida) alla crisi dell’università italiana

10 Novembre 2008

Anche dopo la conversione in legge del "decreto Gelmini", i temi riguardanti la scuola rimangono in primo piano. In attesa di vedere i prossimi passi che compierà il governo sull’argomento, è opportuno dare un’occhiata a quanto invece è già stato fatto. Le novità più interessanti sono probabilmente contenute nella legge n. 133 del 6 agosto 2008. Senza nulla togliere all’importanza di provvedimenti che riguardano il tempo pieno, il voto di condotta e il maestro unico, questo testo che è già divenuto legge dello Stato da alcuni mesi rende possibile la trasformazioni delle nostre università in fondazioni.

In realtà, tale legge viene sempre ricordata in questi giorni per i tagli che impone ai nostri atenei. L’articolo 66 stabilisce infatti che per gli anni a venire e fino al 2013 vi sarà una riduzione progressiva del fondo di finanziamento ordinario delle università. Ma siamo così sicuri che oggi alle nostre università vengano destinati minor fondi rispetto agli atenei degli altri Paesi?

Roberto Perotti, nel suo recente "L’università truccata", riporta i dati divulgati dall’Ocse. Per il 2004, la classifica della spesa per studente ci ha visto dietro il Portogallo e appena più avanti dell’Ungheria, della Corea e della Repubblica Ceca. Una posizione non certo di vertice. Ma, analizzando meglio il dato, si scopre che la cifra dalla quale si è partiti per formulare tale classifica si riferisce per tutti i Paesi, eccetto che per l’Italia, alla spesa per studente "equivalente a tempo pieno". È ben noto che da noi circa il 50 per cento degli iscritti sono fuori corso e il 20 per cento non ha superato un esame. Perotti allora, rimodulando il dato per l’Italia, mostra come, alla luce delle peculiarità del nostro sistema, la spesa per studente equivalente a tempo pieno sia la quarta per consistenza, inferiore solamente a quella fornita da Usa, Svizzera e Svezia.

Però, se fino ad oggi gli stanziamenti potevano definirsi adeguati, dal 2009 e fino al 2013 le risorse saranno destinate a calare. Sul problema dei finanziamenti si può intervenire in due modi. Da una parte abbiamo visto come negli ultimi anni siano esplosi sia il numero dei corsi che degli atenei. Una razionalizzazione ed un contenimento di questo fenomeno non potrà che dare benefici ai conti pubblici. Dall’altra l’articolo 16 della legge 133 del 2008 offre la possibilità agli atenei di diventare fondazioni, aprendosi così ai contributi e alle erogazioni liberali dei privati.

Dal sito Cercauniversità del Ministero dell’istruzione, università e ricerca (Miur) si è appreso come, tra il 2000 e il 2007, i corsi di laurea siano aumentati da 2444 a 5517. Una prima domanda potrebbe allora essere: siamo veramente sicuri dell’indispensabilità di un corso di laurea in "Scienza dell’allevamento, dell’igiene e del benessere del cane e del gatto"? Inoltre, è cresciuto nel tempo il numero delle università. Le sedi distaccate hanno raggiunto un numero assai elevato di Comuni, con il paradosso di trovare nella sede distaccata di Tempio Pausania 5 studenti iscritti o di averne 8 in quella di Colle Val d’Elsa. Insomma, volendo, per risparmiare soldi si potrebbe tagliare cominciando proprio da qui.

Molto importante è la norma che consente il passaggio facoltativo ad una gestione privatistica degli atenei. Una deliberazione a maggioranza assoluta del Senato accademico potrebbe aprire la strada a questa eventualità, permettendo alle fondazioni di rilevare il patrimonio dell’università, ricevere finanziamenti esterni esenti da tasse e imposte indirette (e interamente deducibili dal reddito di chi eroga il contributo), vedere l’ingresso nella fondazione universitaria di nuovi soggetti pubblici o privati, godere di autonomia gestionale, organizzativa e contabile. In realtà, la norma così come è stata approvata, presenta molti tratti di genericità e lacunosità da rendere assai difficile la sua applicazione.

Proprio sul sistema dei finanziamenti si presentano alcune criticità. Non è affatto specificato come si realizzerà l’equilibrio fra le due fonti di finanziamento: quella pubblica e quella privata. In un primo tempo si sostiene la perpetuazione dell’erogazione pubblica di risorse, mentre in un secondo tempo viene affermato che gli stanziamenti dello Stato terranno in considerazione, a fini perequativi, i fondi privati ricevuti dalla fondazione. Nell’incertezza della norma sembra di capire che, chi meno riuscirà a reperire nel settore privato, più avrà dal pubblico. Sicuramente non un incentivo a comportamenti "indipendenti" rispetto al finanziamento statale, bensì un disincentivo a reperire fondi "sul mercato".

Comunque, la motivazione di base rimane valida. Come nella maggior parte dei Paesi europei ed Ocse, anche in Italia occorre avviare riforme tendenti a prevedere la partecipazione di privati, imprese ed enti locali nell’offerta di istruzione. In generale, nei Paesi più industrializzati le università vengono finanziate con sistemi che contemplano, a fianco dell’intervento pubblico, un importante intervento privato. Negli Stati Uniti, in Canada, Giappone, Nuova Zelanda e Australia, ovvero in Paesi in cui i sistemi universitari sono particolarmente avanzati, l’intervento privato è maggiore di quello pubblico.

Ma l’apertura a capitali privati può portare di per sé a un miglioramento dell’istruzione terziaria in Italia? Più che legati alla insufficienza di risorse – che come abbiamo visto rappresenta un falso mito – l’arretramento del nostro sistema universitario è dovuto a regole che lo hanno penalizzato. Ad esempio, allo stato attuale la qualità dell’insegnamento non è incentivata dalle vigenti procedure che determinano il livello retributivo dei docenti. Se lo stipendio di un professore è solamente legato all’anzianità di servizio, ciò non stimola la voglia del docente di eccellere. E questo fenomeno, oltre a ripercuotersi negativamente sulla qualità dell’insegnamento può avere conseguenze anche sulle capacità della futura fondazione universitaria di attirare risorse private. Infatti, la rimozione di regole rigide e centralistiche attraverso la concessione di maggiori spazi di autonomia per gli atenei può ingenerare processi competitivi e una maggior facilità dei capitali privati a dirigersi dove esistono situazioni di eccellenza.

Le creazione delle fondazioni universitarie deve allora essere la premessa perché esse possano darsi regole di comportamento e modalità di organizzazione autonome, potendo in tal modo avere libertà di reclutamento nella scelta del personale docente, fissare il livello di tasse universitarie che gli studenti devono pagare oppure definire i percorsi didattici con maggiore flessibilità. Sicuramente un sistema basato sulle fondazioni universitarie non è compatibile con la peculiarità tutta italiana dei concorsi nazionali.

È evidente come lo spostamento di denaro dai privati alle università avverrà solamente con la responsabilizzazione degli atenei nell’uso dei fondi ricevuti. Bisogna pertanto convincersi che l’apertura al finanziamento dei privati e all’autonomia gestionale degli atenei sono tappe obbligatorie per vedere finalmente le nostre università primeggiare nelle classifiche che premiano la loro qualità.