L’Europa dopo la sentenza di Karlsruhe: la coscienza europea ad un bivio

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L’Europa dopo la sentenza di Karlsruhe: la coscienza europea ad un bivio

L’Europa dopo la sentenza di Karlsruhe: la coscienza europea ad un bivio

17 Maggio 2020

Troppi fatti, di questi tempi, stanno mostrando come la coscienza europea sia giunta, affaticata, ad un fatale e intricato crocicchio, da cui dipartono sentieri di interessi in contrasto, utopie freddissime, voglia di riscatto. Strade non convergenti, spesso nemmeno parallele, che ci interpellano sul senso della costruzione europea; su quel processo di integrazione che mai come oggi sembra tutt’altro che irreversibile; sul futuro da dare ad un continente certo, ma ancor più ad un sentimento civile che oggi è orfano di idee, religione e identità. Più che confusione, intorno all’Unione europea sembra essersi addensata una certa disillusione.

Prendiamone uno di quei fatti a cui prima si accennava: la sentenza del Bundesverfassungsgericht (il BVerG, corrispondente tedesco della nostra Corte costituzionale) dello scorso 7 maggio, che ha riconosciuto essere oltre la legalità dei trattati il programma di acquisto di titoli di stato (il PSPP) varato dalla Banca centrale europea a guida Mario Draghi. Proprio quella iniziativa, che ha tenuto al riparo le economie più traballanti dell’Unione dalla tempesta speculativa degli ultimi anni, per i Giudici di Karlsruhe si pone al di fuori dell’ordine di competenze e funzioni tracciato dai trattati europei, tanto che ben possono gli organi della sovranità politica di uno stato membro come la Germania chiamare a rispondere la stessa Banca centrale del suo operato, come fosse un qualunque scolaretto dinanzi al proprio intransigente e ottuso insegnante. Eppure non è nella conclusione l’aspetto più surreale della decisione, quanto piuttosto nelle argomentazioni che tale soluzione spiegano.

Buona parte della decisione del BVerG si sviluppa in una ruvida dialettica con la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE), l’organismo giudiziario a cui spetta il vaglio di legittimità sugli atti delle istituzioni europee e, in via pregiudiziale, sulla validità di questi ultimi e sulla interpretazione dei trattati. Corte che, interpellata proprio dai Giudici tedeschi sul programma di acquisto della BCE, non aveva esitato a dichiararne la conformità allo spazio funzionale della Banca. Gli effetti sulle economie europee del piano straordinario di Draghi, a parere dei Giudici di Lussemburgo, non sarebbero infatti incompatibili né oltremodo sproporzionati rispetto alle finalità specifiche dell’organismo bancario dell’Unione (stabilità dei prezzi e contenimento del tasso di inflazione).

Ora, pur davanti ad una decisione di tal fatta, il Tribunale costituzionale federale tedesco, invece di conformarsi alla interpretazione della Corte di Lussemburgo, se ne è discostato platealmente, contestandone addirittura il metodo di interpretazione, definito inattendibile.

Infatti, secondo Karlsruhe, la CGUE sarebbe stata chiamata a stabilire se le misure adottate dalla BCE si ponessero oltre quanto “manifestamente” necessario per raggiungere gli obiettivi che i trattati le affidano. Nel momento in cui la Corte di Giustizia ha sviluppato il proprio ragionamento ermeneutico senza una valutazione sugli effetti reali delle misure che è chiamata a vagliare secondo il principio di proporzionalità, il suo giudizio non può essere condiviso e seguito – ci dicono i Giudici tedeschi.

Nella sostanza, con questa decisione, il BVerG si ritaglia, autonomamente e di certo indebitamente, un ruolo di verifica deontologica e di giudizio di metodo sulle decisioni della Corte di Lussemburgo. Un incisivo spazio di supremazia, fondato sulla convinzione, tacitata nella sentenza ma alquanto evidente, che i trattati europei non siano altro che un modello di concertazione di plurimi interessi singoli, i quali finiranno sempre e comunque per prevalere sulla costruzione più ampia.

Non è nuova l’idea che una Corte nazionale possa utilizzare strumenti di resistenza avverso l’espansione del diritto dell’Unione. Strumenti che però erano sempre stati ricondotti all’impellente necessità di difendere un modello di identità costituzionale, proprio di ogni Stato membro, che comunque resta sovra-ordinato rispetto ad ogni forma pur stringente di integrazione continentale. Si guardi alla teoria italiana dei “controlimiti”, che troviamo in embrione già in pronunciamenti risalenti della Consulta, ma organicamente proposta nel 2014 e tornata alla ribalta nel famoso “caso Taricco” (2015-2017).

Una cosa è sostenere che esistano valori, diritti, principi, modelli che le tradizioni costituzionali dei singoli Stati membri hanno costruito nei secoli e con cui comunque il diritto europeo è chiamato ad armonizzarsi. Ecco, una cosa è dire che questi preziosi frammenti di identità rappresentino elementi fondanti ed incomprimibili della coscienza di una nazione, garantendo dunque uno spazio di sovranità che, in quanto spazio sentimentale, deve e può resistere al processo di integrazione, nella dialettica tra Corte di Lussemburgo e Corti nazionali.

Diverso è invece pensare che gli Stati membri – e dunque le Corti nazionali – mantengano un residuo e singolare potere di interpretazione dei trattati, tale da ribaltare e confutare perfino il ragionamento ermeneutico della Corte di Giustizia.

Sia chiaro, l’idea che l’interpretazione dei testi convenzionali alla base della costruzione europea sia affidata ad uno specifico organismo giudiziario sovra-nazionale risponde proprio alla logica di sottrarre all’interesse del singolo paese (fosse anche il più forte e ricco dell’Unione) la definizione dei meccanismi di concertazione della costruzione europea, come anche le decisioni delle singole istituzioni euro-unitarie. Nel caso contrario, dovremmo accettare che i trattati possano mutare in funzione dei singoli Stati membri, in funzione cioè di ventisette diverse volontà. Questa la conclusione paradossale a cui si arriverebbe, ove si desse credito alla decisione del BVerG.

Il confine è sottile, ma dirimente. Nessuno può negare che esistano in questa nostra costruzione europea una pluralità di linee di interesse, che, anche se non corrispondenti nel numero a quello degli Stati membri, si possono ricondurre a tre diverse dimensione culturali e politiche. L’una atlantica, con gli occhi fissi ad ovest, orfana oramai del Regno Unito; la seconda continentale, contigua all’estremo oriente europeo, di certo a guida tedesca; la terza mediterranea, con i piedi bagnati nel “nostro” mare, in cui l’Italia non può che riconoscersi. Ora, se questi tre spazi, stressati da questa difficile crisi sanitaria, sembrano confliggere e distanziarsi, due sono le possibili soluzioni.

Si possono rafforzare i modelli di compensazione e di raccordo (le istituzioni europee), sottolineandone l’autonomia e rafforzandone la terzietà, dotandole perfino di una indipendenza politica sempre più forte, legittimata dunque con forme democratiche sempre più sfacciate. Oppure si possono cominciare a riaffermare spazi più ampi di sovranità statale, anche dove i trattati sembrano limitarli. La decisione del BVerG in realtà va proprio in questa direzione, in netta contrapposizione con un processo di integrazione che si vorrebbe sempre più stringente, ma che invece sembra disintegrarsi.

Mai bivio fu più alternativo. E forse proprio per questo la soluzione va ben ponderata, oltre ogni approccio ideologico e adesione preventiva. Soprattutto perché, in questo mondo “virato”, si fa sempre più concreto il rischio che l’Europa diventi il fatale luogo di scontro tra la forza arrembante del Dragone cinese e la resiliente potenza dell’Aquila americana.

Ancor più, direi, con la consapevolezza che le costruzioni unitarie non sono obiettivi di un momento, ma processi che si realizzano su scontri, dialettica e conflitti; la reductio ad unum si può realizzare solo se da tante coscienze singole se ne genera una, non più ristretta, ma più larga ed armonica, direi soprattutto condivisa e accettata, democraticamente legittimata.

Ecco, sia chiaro però che la democrazia è nemica dell’individualità. Il principio maggioritario non si realizza sulla somma delle posizioni dei singoli, ma interpreta un sentimento che più è fondato quanto più è generale e intestino. La democrazia non è mai resistenza, ma adesione e dunque sacrificio del proprio. Un conflitto che oltreoceano hanno risolto solo nel sangue di Gettysburg, nel 1863.

Ecco, se dobbiamo costruire un nuovo spazio di coscienze, è fondamentale e necessario che in esso ci sia posto per la nostra.