L’Occidente, l’Iran e il falso mito democratico
15 Giugno 2009
di redazione
“Come il resto del mondo siamo rimasti colpiti dal vigoroso dibattito e dall’entusiasmo generato dalle elezioni in Iran e particolarmente fra i giovani”, ha detto il portavoce della Casa Bianca all’indomani delle proteste scoppiate per la vittoria di Ahmadinejad. Questa dichiarazione riflette a meraviglia l’ingenuità con cui gli osservatori internazionali, e in particolare i media occidentali, hanno guardato al voto iraniano, credendo che bastasse davvero una rivolta maturata sui blog e i siti Internet per rovesciare un regime illiberale come la teocrazia khomenista.
Certo, quella iraniana è una popolazione giovane (il 6o per cento è nato dopo la Rivoluzione ed è altissima la percentuale dei nuovi elettori), una generazione attratta dai modelli e dagli stili di vita occidentali. Ma chi sono questi giovani? La sconfitta della “Onda verde” stretta attorno a Mousavi non è solo figlia dei brogli elettorali che hanno funestato le elezioni (i candidati dell’opposizione sono stati sconfitti anche nelle loro città natali!), così come la società iraniana non può essere ridotta unicamente alla capitale Teheran o alle principali città del Paese dov’è più forte la ribellione al regime.
Credere che i giovani iraniani siano esclusivamente quelli che manifestano a migliaia in queste ore – i figli dell’elite che vestono Armani e ascoltano heavy metal, i manager under 35 in giacca e cravatta che tirano pietre contro la Polizia – è un errore di valutazione. Ci sono anche altri giovani del proletariato urbano e rurale che hanno accettato e accettano l’ortodossia khomeinista. Quanti sono esattamente? Rispondere a questo interrogativo è fondamentale se vogliamo comprendere cos’è accaduto in Iran.
In secondo luogo il voto di venerdì dimostra che gli strumenti internettiani, da soli, non bastano a minare le basi di un sistema ideologico opprimente, tanto più che possono essere facilmente chiusi e oscurati. Fino a quando l’opposizione alla teocrazia rimarrà sul piano della “virtualità”, il cambiamento sarà un’utopia che non tiene conto di quella che è la realtà del potere costituito. D’altronde quando ci si sconnette da Internet per scendere in piazza arrivano puntualmente i Pasdaran di nero vestiti a bastonare chi si ribella.
Sgombrato il campo dal facile utopismo a cui si sono abbeverati obamiani e giornalisti occidentali, l’impressione è che i giovani iraniani che gridano “morte al dittatore!” non siano abbastanza forti e numerosi da poter esprimere un’egemonia, né che riescano a trovare una leadership autorevole che li rappresenti all’interno del Paese e fuori (se non poggiandosi ai moderati del regime come Mousavi). In ogni caso, non appena queste avanguardie si fanno avanti, diventando troppo pericolose, vengono puntualmente decapitate.
Piuttosto, ancora una volta dobbiamo inchinarci all’astuzia del duce Ahmadinejad. Un dittatore capace di far percepire al resto del mondo che l’Iran è una democrazia dove si vota, ci si ribella, si combatte dialetticamente (e non), mentre invece questa elezione è stata solo l’ultima vittoria preparata a tavolino dal regime, giocando sui sogni, le aspettative e le illusioni di un Occidente disposto a credere che le tirannidi si abbattono con Twitter e Facebook. Un discorso che vale per l’Iran ma anche per Cuba e la Moldavia.