L’ultima chance di Veltroni per dare un’occasione al paese (e a se stesso)

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L’ultima chance di Veltroni per dare un’occasione al paese (e a se stesso)

21 Aprile 2008

Nel suo stesso partito c’è chi dopo il risultato del 14 aprile vorrebbe già sotterrare Veltroni. E a me pare che sia lo stesso Veltroni, paradossalmente, a rischiare di dargli una mano. Proprio lui che, d’altro canto, si sforza di presentare il risultato conseguito dal Pd come il fondamento sul quale costruire una nuova grande forza riformista. Proprio lui che rivendica come un successo aver portato il nuovo partito a conquistare poco meno di un terzo dei votanti.

Veltroni dovrebbe capire che queste evidenze possono acquistare significato politico solo alla luce di una premessa. Quella per la quale il 14 aprile è nato un nuovo sistema politico, con due partiti a vocazione maggioritaria di centro-destra e di centro-sinistra che si battono per conquistare il centro: lo spazio nel quale si collocano i voti più facilmente fluttuanti sulla base dei programmi e persino di sensazioni momentanee. Per accreditare questa premessa, però, vi è l’assoluto bisogno che da parte del Pd veltroniano non vengano ora smentite le “rotture” del “nuovo corso”, sui contenuti e ancor più su una scelta metodologica di fondo.

Sul terreno dei contenuti, la campagna elettorale del Pd si è caratterizzata per aver fatto proprie alcune impostazioni programmatiche a lungo tipiche dello schieramento avversario. Nell’ambito della politica fiscale questa tendenza ha descritto una vera e propria inversione di rotta. Ma anche in materia di welfare, di pubblica amministrazione, di sicurezza i programmi dei due principali partiti hanno presentato una buona percentuale di idee condivise. Al punto che tale circostanza è stata registrata con una certa dose di fastidio da parte del centro-destra. In periodo di campagna elettorale è comprensibile. Bisognava domandare agli elettori di fidarsi dell’originale, diffidando delle imitazioni. Ma trascorsa l’esigenza di conquistare fino all’ultimo voto, il centro-destra dovrebbe ora rivendicare alla propria influenza politico-culturale di lungo corso il fatto di aver provocato, persino nei propri avversari, un cambiamento del lessico politico e di alcuni riflessi mentali. Era già accaduto per quel che concerne la forma-partito e gli aspetti comunicativi dello scontro politico. Ora l’effetto si è esteso ai contenuti.

Veltroni, da parte sua, anziché tornare indietro come ha la tentazione di fare, dovrebbe invece rivendicare questa “svolta”. Sfidare Berlusconi a realizzare quanto promesso. Sfidarlo a razzolare bene, dopo aver meglio di lui predicato. E confermare disponibilità per alcune riforme condivise per poi essere pronto a fare ciò che, eventualmente, il leader del centro-destra non saprà o non potrà realizzare. La condivisione di alcuni obbiettivi che mirano a modernizzare il Paese, insomma, non dovrebbe scadere a espediente pre-elettorale. E neppure a riflesso meramente difensivo, che scatta solo quando ci si viene a trovare in difficoltà, come sulla questione della sicurezza a Roma.

Queste tentazioni sarebbero ancora più gravide di conseguenze qualora mettessero in dubbio la scelta metodologica di fondo del nuovo Pd. Nella conferenza stampa che seguì l’incontro con Berlusconi, nel corso del quale venne presentata al leader del centrodestra una proposta di legge elettorale che fu sostanzialmente accettata, Veltroni parlò un linguaggio che mai si era udito dalla bocca del segretario del maggior partito della sinistra. Riconobbe a Berlusconi il rango di avversario e non la qualifica di nemico. Chiarì come per ammodernare il nostro sistema politico – il più antiquato d’Europa – fosse necessario il concorso di tutti. Dichiarò, insomma, la fine della guerra civile strisciante, facendo immaginare l’inaugurazione di una fase di scontro politico più maturo e consapevole.

Il Veltroni odierno sembra volersi rimangiare buona parte di quelle affermazioni. Già in campagna elettorale, in una risibile lettera-appello sui fondamenti della Repubblica, si era manifestata la tentazione antica della delegittimazione dell’avversario. Nell’intervista concessa a Massimo Giannini su Repubblica quel riflesso si è rafforzato: polemiche elettorali sono così assurte a pregiudiziali d’ordine morale; si è tornati ad auto-proclamarsi custodi della democrazia e i necessari riequilibri della rappresentanza istituzionale – questa sì stravolta allorquando la sinistra vinse per soli 24.000 voti – sono stati indicati come interdizioni sulla via di una riforma condivisa delle istituzioni.

Veltroni deve sapere che, in termini storico-politici, il suo “buonismo” non può aspirare ad essere neppure lo sbiadito remake della “diversità” di Berlinguer: altri tempi e, soprattutto, altra intensità morale. E una politica di legittimazione a tempi alterni del centro-destra non può neppure lontanamente essere la riproposizione della “doppiezza” di togliattiana memoria. E’ solo una ambiguità che rischia di divenire incomprensibile.

Per questo, trascorsi i ballottaggi, Veltroni e il Pd dovranno tornare alla “sfida” originaria: incalzare la nuova maggioranza a fare le riforme, alcune delle quali in modo condiviso, e abbandonare definitivamente l’ammuffita pretesa di contestarne la legittimità democratica.

Se dovesse cedere a questa tentazione, il centro-destra perderà l’opzione della “legislatura costituente” ma gli resterà pur sempre l’opzione di un governo di “medio cabotaggio”. Nel campo della sinistra, però, avranno a quel punto ragione coloro i quali vorrebbero già sbarazzarsi del segretario del Pd. Perché  il risultato elettorale non sarà più la premessa di niente. Resterà soltanto la sonora sconfitta certificata da ben nove punti di svantaggio. In tal caso, Veltroni prenderà con ogni probabilità una china discendente e il Paese si sarà gettato alle spalle l’ennesima “grande occasione”.