L’unico merito di Wikileaks è di aver restituito verità alle ragioni d’Israele
29 Novembre 2010
Non v’è dubbio che il terremoto che Julian Assange e quelli di Wikileaks si aspettavano, non ci sia stato. Tutto sommato, la vera notizia è questa, accanto forse al fatto che finalmente la Casa Bianca abbia deciso di lanciare un nuovo piano per la gestione di informazioni classificate e segrete. Se i giornalisti e gli editori del Guardian e del New York Times &co non hanno trovato di meglio che forzare il pubblico principalmente su pettegolezzi sui grandi della terra, non c’è da aspettarsi molto da quello che via via Wikileaks sta pubblicando sul suo sito. Esclusi insomma i dispacci più rilevanti e succulenti (soprattutto quelli con ‘buone’ informazioni riportate dai diplomatici statunitensi da talpe d’alto rango nei palazzi che contano delle rispettive capitali) il resto è una lista rigorosa e accuratamente battuta di maldicenze e paccottiglia diplomatica. Ma tant’è.
Eppure, eppure. Qualcosa merita di essere detto sui dispacci provenienti dal Medio Oriente. Ci confermano gli interessanti e significativi (anche duraturi?) cambiamenti che attraversano la regione. Tante le ragioni. In primo luogo danno uno spaccato meno opaco sul livello di maggiore libertà affermatosi nelle relazioni tra le principali capitali arabe che, secondo quello che emerge dai documenti, sembrano meno strette nell’antagonismo ideologico anti-israeliano. E questo a dispetto di quanto una certa platea di esperti di politica estera liberal statunitense che tende a dipingere gli affari mediorientali inestricabilmente connessi al tragico conflitto israelo-palestinese. Gli stessi insomma che hanno spinto il presidente Obama e la sua amministrazione, dal discorso del Cairo in poi, a ritenere che tutto in Medio Oriente passi per la definizione del dissidio israelo-palestinese.
Sembra che la sinora forte subordinazione da parte araba a qualsiasi discussione che verta sulla vita della regione alla soluzione del problema palestinese e dunque anti-israeliano, non sia più un dogma diplomatico. Anzi semplicemente, non è più vero. Il dossier del nucleare iraniano ha, se non sostituito, almeno spostato l’attenzione delle leadership arabe dall’ostilità politico-religiosa contro Israele, ad una riflessione più larga del concetto di sicurezza regionale. L’ostilità dimostrata nei confronti dell’Iran dai vertici di Arabia Saudita, Egitto, e molti dei paesi del Golfo Persico, dimostra esattamente che le nazioni arabe mediorientali hanno abbassato sensibilmente il loro livello di ostilità nei confronti di Israele. Il nucleare iraniano spaventa di più. Molto di più.
Come sappiamo la mancanza di risolutezza dimostrata dall’Occidente, e in particolare dagli Stati Uniti di Obama, nel contenimento delle ambizioni nucleari iraniane, sta conducendo la regione mediorientale alla proliferazione nucleare. E nel bene e nel male questo ci è confermato da un dispaccio del dicembre 2009 dall’ambasciata statunitense di Tel Aviv, ove Amos Gilad, all’epoca capo del Security Bureau del ministero della Difesa israeliana, affrontando la questione con il sottosegretario alla non-proliferazione statunitense, Ellen Tauscher, faceva notare che l’Egitto e la Giordania stavano fortemente collaborando in materia di nucleare “civile”. Non solo ma che Israele, così racconta Gilad, fornisca assistenza ad Amman per la costruzione del suo primo reattore nucleare. Potremmo citare molti altri aspetti del problema di disinformazione che ha afflitto la politicizzazione, e dunque un atteggiamento di chiusura, spesso anche ideologica, con riguardo a Israele.
Si ricorderanno senz’altro le ambulanze colpite dalle forze di difesa israeliane (IDF) della International Red Crescent (la versione islamica della Croce Rossa), durante la guerra israelo-libanese provocata dalle milizie sciite di Hezbollah nel 2006. Quanta indignazione crearono. Ora dai dispacci pubblicati l’altro ieri sera emerge nitidamente che la "Red Crescent" – in violazione dello ius in bello vigente – avesse trasportato con suoi veicoli, sotto mentite spoglie ospedaliere, armi all’interno del territorio libanese durante e dopo il conflitto del 2006. Dell’incapacità di impedire questi traffici di armi, ne sa qualcosa l’ONU e il governo italiano, visto il significativo contingente militare italiano inquadrato nella missione che derivo’ proprio da quel conflitto, la UNIFIL II.
Quest’ultima è senza ombra di dubbio è uno dei più clamorosi e recenti fallimenti di politica estera del nostro paese visto che nulla è stato fatto per impedire che Hezbollah si rimpossessasse di ingenti quantitativi di armi fornitegli dall’Iran e condotti in Libano grazie alla complicità dei servizi segreti e delle forze armate siriane. E sulla cattiva fede di Israele? Sul fatto che il governo di Gerusalemme non fosse in buona fede nel perseguimento di una soluzione politica del problema palestinese? Quanto inchiostro. Hehud Barak, ministro della difesa israeliano, in una conversazione del 2 Giungo del 2009, si diceva “favorevole a una soluzione due Stati per due Nazioni”, affermando che il fine ultimo di Israele è quello di avere “due popoli che vivano fianco a fianco, in pace e buon vicinato.”. E ancora: la Nord Corea che ha fornito all’Iran 19 missili passati per il Libano grazie ad Hezbollah e finiti nelle mani di Teheran.
Certo è che se di merito a Wikileaks possiamo parlare – difficilmente vorremmo ma se proprio dovessimo – diremo che l’unica cosa di buono che la divulgazione di questi dispacci ha portato in dote, è l’aver chiarito che quando tutta una certa propaganda si abbandona a certi refrain anti-israeliani, è bene diffidare. E che le nazioni arabe medioriental sono molto preoccupate da Teheran e pronte a reagire alle mire espansionistiche dell’Iran. Magari anche con l’aiuto di Israele? Staremo a vedere.