L’università può avere un futuro solo se comincia a premiare i talenti migliori

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L’università può avere un futuro solo se comincia a premiare i talenti migliori

06 Novembre 2008

Bene, benissimo anzi ottimo! La pausa di riflessione sulla riforma universitaria merita un voto pieno, un bel 10. La speranza è che questa pausa duri abbastanza da permettere una riforma veramente efficace. Che non duri troppo a lungo, tuttavia, perché l’Università sta morendo e veramente non c’è più molto tempo a disposizione.

Non sta morendo per mancanza di fondi. Per carità, di quelli ce ne sarebbero a sufficienza per finanziare la ricerca e la didattica che arricchiscono il Paese, ovvero quella dei docenti di qualità. Sta morendo, piuttosto, soffocata dall’assenza di merito. Certo, ci sono atenei che rischiano la sparizione per mancanza di fondi a causa di politiche dissennate nel loro sperpero di risorse. E naturalmente è difficile politicamente acconsentire alla loro naturale sparizione per inettitudine manageriale: non si è fatto per Alitalia, pare ancora più impervia la via in questo caso.

Come evitare tuttavia di salvare queste Università ed il sistema nel suo complesso senza per questo creare l’impressione che si sia liberi di sperperare nuovamente denaro pubblico senza generare buona ricerca e buona didattica con il denaro assegnato? Semplice. Con una riforma che lo impedisca.

Ma quale riforma? Una riforma che garantisca la bontà del processo formativo degli studenti universitari ai diversi livelli di sbocco professionale e al contempo lo sviluppo di maggiore conoscenza tramite la ricerca. Ciò aiuterà a raggiungere l’obiettivo finale della riforma : contribuire, tramite il sistema universitario, allo sviluppo dei talenti ed alle opportunità di arricchimento intellettuale e materiale. Roba non da poco!

Ma quali sono gli strumenti per raggiungere questi risultati così condivisibili? Non c’è dubbio che un criterio credibile per identificare il sentiero giusto è quello di guardare all’esperienza al riguardo degli altri Paesi, tanto più che quei talenti che si vogliono sviluppare sono ormai messi in competizione e cooperazione con i talenti del resto del mondo. E l’evidenza degli altri Paesi mostra un crescente peso che sistemi universitari anche pubblici danno al riconoscimento e alla gratificazione economica dei ricercatori, grazie ai quali è poi possibile arricchire proficuamente le conoscenze dei giovani studenti. Francia e Germania sono gli esempi più recenti di sistemi che hanno deciso di legare il trasferimento di ampie cifre dei capitoli di bilancio dedicati alle Università a quelle migliori quanto a produttività scientifica e capacità innovativa di ricerca.

L’attuale sistema universitario italiano non permette di assumere tali migliori talenti per un semplicissimo motivo: perché non sono sufficientemente remunerati rispetto agli standard scientifici internazionali ed al mercato del lavoro. Mentre 50 anni fa i salari nel settore privato dovevano rincorrere quelli dati ad una élite di professori, oggi il fenomeno si è radicalmente ribaltato: sono le Università che devono cercare di trovare modi per trattenere  professori che hanno nel settore privato e nelle università estere allettanti offerte economiche alternative. In questo nuovo contesto, dato un vincolo di risorse disponibili, si può reagire in due modi: 1) assumendo personale docente ad un salario non competitivo con quello del mercato ma uguale per tutti o 2) differenziando il salario dei docenti in base alle loro capacità didattiche e di ricerca, possibilmente permettendo un’agglomerazione dei migliori negli stessi atenei. E’ questa seconda scelta che sta avvenendo in tutto il resto del mondo. Se la scelta italiana fosse quella di mantenere il primo modello sarebbe una mossa suicida: ci avviteremmo in una spirale perversa in cui oltre al settore privato anche sistemi universitari esteri fungerebbero da calamita per i nostri più bravi, finendo per dedicare risorse ai peggiori ricercatori che ovviamente si accontenterebbero di uno stipendio (basso) uguale per tutti.

Un possibile scambio dunque potrebbe essere il seguente: le università, anche le peggiori, vengano pure salvate una tantum dai loro collassi finanziari come lo sono state o lo saranno alcune delle nostre banche, purché vengano da ora in poi sottoposte ad un regime di assunzioni che ne garantisca l’enfasi premiante sulla base del merito. E cioè di procedere su di una strada che permetta ad ogni università, sui futuri flussi di assunzioni, di effettuare chiamate di personale docente liberamente. Sulla base della performance oggettivamente misurata di questi nuovi ricercatori assunti, una quota crescente nel tempo di finanziamenti pubblici venga poi erogata alle università che hanno generato maggiore ricerca di qualità, lasciando queste ultime libere di differenziare il compenso tra neo-assunti in funzione dei loro risultati. Così come avviene da anni nel Regno Unito.

Nel giro di qualche anno si scatenerà in Italia una vibrante competizione tra Atenei per strapparsi le migliori menti ed il 10 alla Gelmini si trasformerà in una promozione duratura nella storia della politica riformista del nostro Paese.