M.O. Proximity talks, riparte il processo di pace ma Hamas non ci sta

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M.O. Proximity talks, riparte il processo di pace ma Hamas non ci sta

09 Maggio 2010

Senza fanfare, senza cerimonie, senza neppure una blanda stretta di mano che potesse essere almeno immortalata per i posteri, gli stantuffi del processo di pace fra israeliani e palestinesi si sono comunque rimessi in moto oggi grazie agli sforzi caparbi del presidente degli Stati Uniti Barack Obama e del suo emissario George Mitchell.

Le trattative erano state bloccate dal presidente dell’Anp Mahmud Abbas (Abu Mazen) nell’autunno 2008 quando l’allora premier israeliano Ehud Olmert annunciò di aver deciso di dimettersi per l’accavallarsi di sospetti di corruzione. I colloqui con lui e con l’allora ministro degli esteri Tzipi Livni avevano registrato progressi anche significativi: ma prima di riprendere il dialogo con Israele i dirigenti di Ramallah volevano comprendere chi fosse ormai il loro interlocutore, quali le sue intenzioni.

A dare l’annuncio della ripresa delle trattative è stato oggi il negoziatore palestinese Saeb Erekat al termine di un incontro fra Abu Mazen e Mitchell. In questi mesi il diplomatico statunitense ha percorso innumerevoli volte i 20 chilometri fra Gerusalemme e Ramallah. Quella che finora veniva chiamata una "spola" adesso sarà definita "proximity talks", cioè negoziati indiretti. Per i prossimi quattro mesi almeno Mitchell tornerà a passare messaggi fra l’ufficio di Netanyahu e quello di Abu Mazen.

Nel clima di sfiducia reciproca fra le due parti, anche progetti modesti come convocare i negoziatori in stanze separate di uno stesso edificio (ad esempio a Gerusalemme, oppure a Washington) si sono rivelati irrealizzabili. Da Gaza, scontata, è giunta la rumorosa condanna da parte di Hamas secondo cui Abu Mazen avrebbe sventolato bandiera bianca di fronte alle pressioni congiunte di Israele e Stati Uniti. "Uno sviluppo catastrofico" ha esclamato un portavoce islamico a Gaza. "Un crimine politico" ha rincarato da Damasco la direzione del movimento, secondo cui comunque buona parte del popolo palestinese non si sente vincolata dall’esito dei negoziati. Sempre che si arrivi ad un esito qualsiasi: per ora Abu Mazen e Netanyahu trasudano scetticismo.

Il premier israeliano ha sottolineato oggi, con compiacimento, che le trattative ripartono "senza precondizioni". I colloqui indiretti, ha aggiunto, dovranno presto trasformarsi in trattative dirette. Perchè, ha avvertito, israeliani e palestinesi non potranno mai raggiungere "intese di importanza critica, se non saranno seduti nella medesima stanza". La replica palestinese è giunta in pochi minuti, in un’intervista del negoziatore Erekat a Voce della Palestina: "Prima Israele congeli gli insediamenti, poi si avranno negoziati diretti".

Dietro le quinte, viene affermato, Obama ha consegnato ad Abu Mazen garanzie importanti: ma la loro natura finora non è trapelata. Il portavoce del Dipartimento di stato, Philip Crowley, ha avverti che "come le due parti sanno bene, se l’una o l’altra adotteranno provvedimenti durante i colloqui che, dal nostro punto di vista, mineranno gravemente la fiducia, noi reagiremo e le considereremo responsabili, per fare in modo che i negoziati continuino". Ora più che mai il presidente americano dovrà destreggiarsi.

Gli israeliani ritengono che, avendo ottenuto la ripresa dei colloqui israelo-palestinesi, sia ora suo dovere affrontare con determinazione l’Iran e accrescere le pressioni nei suoi confronti. I palestinesi pensano al contrario che Obama migliorerà la propria posizione nel mondo arabo solo se eserciterà pressioni energiche sul governo Netanyahu.