Mezzogiorno, la sfida liberale del centrodestra

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Mezzogiorno, la sfida liberale del centrodestra

05 Ottobre 2009

Dalla Campania alla Calabria, buona parte del Mezzogiorno sembra al termine del lungo ciclo politico iniziato nei primi anni ’90 con l’elezione dei sindaci di centrosinistra. Quelle esperienze si erano presentate sotto il segno dell’innovazione politico-amministrativa e culturale (si pensi alla prima stagione Bassolino), ma poi hanno tradito le aspettative, rivelandosi incapaci di realizzare gli ambiziosi progetti di partenza e, peggio, producendo deficit sanitari, disastri ambientali, dissipazione dei copiosi fondi europei. Non c’è da stupirsi se le ultime amministrative abbiano fatto registrare un’inversione di tendenza a favore del centrodestra e se molti ritengano probabile un analogo risultato alle regionali del 2010. Nelle dinamiche politiche, tuttavia, la vittoria annunciata può rivelarsi una trappola.

Oggi il centrodestra meridionale ha di fronte a sè un’alternativa secca: la strada della rendita o la strada dell’investimento. Da una parte, può semplicemente tirare le reti, approfittando della crisi nella quale versano i propri avversari. La manna dal cielo. Ma si tratterebbe di una vittoria sulle sabbie mobili, simile per certi versi a quella che conseguì la sinistra meridionale nel 1993, grazie al vuoto politico determinato da Mani Pulite. La tentazione di tramutare il successo elettorale in pura gestione del potere sarebbe forte. Forse sarebbe obbligata. L’alternativa è costruire nel Sud quel che nessun partito ha mai proposto in modo credibile e tantomeno realizzato: una cultura liberale e una classe dirigente diffusa, capace di esprimerla e moltiplicarla. Si sa che il Sud è territorio storicamente refrattario alla cultura liberale, data la doppia debolezza dello stato e del mercato. Non a caso, in continuità con le pratiche di governo della prima Repubblica, la sinistra vi ha edificato in questi anni un modello opposto a quello liberale, redistribuendo risorse pubbliche secondo criteri di appartenenza, gestendo il territorio con criteri verticistici, centralizzando la vita sociale attraverso programmi di spesa che tradivano la vecchia abitudine all’egemonismo culturale. Ma un sistema del genere non ha funzionato, non ha attivato energie innovative, non ha creato sviluppo, come dimostra l’encefalogramma piatto del Pil. Al contrario, ha messo in piedi reti di consenso chiuse e asfittiche, ha privilegiato élite amiche e clientele, ha calpestato trasparenza ed efficienza. Soprattutto, ha finito per allontanare quei settori sociali sempre più numerosi, che avrebbero avuto ogni interesse a giocare le proprie carte in un mercato aperto e in un quadro di correttezza procedurale. I numeri dicono che, anche nel Sud assistito, la macchina dell’intermediazione politica taglia ormai fuori consistenti pezzi di popolazione, i disoccupati giovani, i laureati e gli specializzati, la massa dei professionisti esclusi dalle grazie del principe, e poi commercianti, piccoli e medi imprenditori. 

Oggi, facendosi interpreti di una cultura liberale che (faticosamente) avanza nel paese e resta invece al palo nel Sud, sono loro a chiedere   concorsi pubblici a regola d’arte, appalti ottenuti grazie alla produttività d’impresa, progetti finanziati in base ai risultati e alla tempistica, licenze date senza discriminanti partitiche, consulenze attribuite secondo criteri funzionali. È questa la prateria che si apre nel Sud a chi voglia non solo accendere una rendita sulla crisi della sinistra, ma costruire una prospettiva duratura di innovazione sociale. Naturalmente, una cultura liberale significa rinunciare all’uso partigiano del potere pubblico, adottare pratiche amministrative trasparenti, stimolare la competizione e la meritocrazia, separare politiche produttive e politiche sociali. L’opposto di quanto accade. Sta qui, tuttavia, la chiave di volta di una fase politica che può ridursi all’alternanza tra coalizioni di diverso colore, ma sostanzialmente simili tra loro, o può aprire il Sud ad un concreto processo di svecchiamento. Mai come adesso, alla vigilia di un’importante scadenza elettorale, il segno di una simile svolta consiste nella capacità delle forze politiche di selezionare e reclutare classi dirigenti innovative, solide, credibili e – in un contesto terribilmente gerontocratico – giovani. Il punto è se si crede o meno che esista un Mezzogiorno largamente deluso nelle proprie aspirazioni alla modernità. Nel primo caso, per la politica diventerebbe del tutto ragionevole investirvi le proprie risorse migliori, rinunciando ad usarlo (ancora una volta) come serbatoio.