Milano di tutto ha bisogno tranne di un boschetto in piazza Duomo
09 Novembre 2009
Dà conforto constatare sui giornali l’ampia ribellione all’idea di Renzo Piano (a cui peraltro dobbiamo essere grati perché finalmente si è aperto un vero dibattito con posizioni contrapposte sull’architettura cittadina) di costruire un boschetto in piazza del Duomo. Perfette le osservazioni di un grande architetto come Mario Bellini che dice che il problema del verde riguarda gli spazi da costruire non già quelli già definiti, e l’idea di Piano è bizzarra come lo sarebbe proporre un boschetto “in piazza San Marco”. In Vittorio Gregotti, poi, che difende il contesto storico di una piazza come quella del Duomo, luogo di “pietra” per eccellenza, è rispuntato lo spirito del critico di architettura di formazione rogersiana, assai più valido di quello del recente progettista di mediocri periferie.
Perché un progettista pur di qualità come Piano ha fatto una proposta così evidentemente sbalestrata? In realtà ci troviamo di fronte a un architetto che dà il meglio di sé, riesce a esprime una qualche poesia innanzi tutto quando s’impegna a sposare un progetto a un ambiente naturale. Un ambiente non troppo urbanizzato. Invece, dal porto di Genova è stato allontanato perché non era in grado di entrare in sintonia con le complesse esigenze di quel luogo, a Sesto San Giovanni le sue idee sono rimaste astratte, marginali nella periferia milanese di Lambrate e ha suscitato delusione il suo progetto del grattacielo per il New York Times, a Manhattan il luogo per eccellenza dell’urbanesimo moderno. Alla fine, del fantastico progetto per il Beaubourg di cui ci innamorammo a metà degli anni Settanta si è potuto comprendere come la vera intelligenza creativa fosse quella di Richard Rogers che poi ci ha deliziato con altre opere analoghe (fantastico l’edificio dei Lloyd’s di Londra). Era lui il genio del contesto urbano che ha inventato quella sorta di luna park nel cuore di Parigi che è il Centre Pompidou.
E’ significativo, comunque, come a un architetto, sia pure star, venga in testa di comandare senza nessuna titubanza in una città come Milano e lo faccia in sintonia con un altro grande artista come Claudio Abbado che ha l’arroganza di chiedere, per “tornare a dirigere” alla Scala, che si piantino 90 mila alberi in città: e Piano si collega direttamente a questa stravagante richiesta. Qualcuno paradossalmente osserva come fosse dai tempi di Caligola che una volontà così disordinata non si imponeva sulla cosa pubblica.
Tutto ciò avviene perché Letizia Moratti non esercita una vera guida sull’amministrazione. E infatti ha subito dato sventatamente un suo più o meno generico appoggio all’idea dell’architetto genovese.
In questo senso anche tutte le spericolate idee di mettere al centro della prossima Expo 2015 un orticello globale hanno questa matrice: volontà progettuali che si esprimono sulla base di singole motivazioni e vocazioni (quello che so fare è questo e dunque si fa questo) piuttosto che su un’articolata riflessione su che cosa ci deve essere al centro di un progetto sia questo un sistema di verde per Milano, la preparazione di una Expo o la risistemazione di piazza Duomo: un problema, quest’ultimo, su cui si discute da un cinque o sei secoli, e un po’ meno sbrigativamente di come fa Piano, tra l’altro con un ultimo fantastico progetto (in cui il minimo di verde presente ha una logica progettuale legata al contesto) di quel meraviglioso architetto razionalista che fu Ignazio Gardella, proposto a metà degli anni Trenta e ripreso negli anni Ottanta.
La storia di come si è ammalata gravemente una cultura del progetto a Milano è lunga: dagli eccessi di utopia ed estremismo del Sessantotto, agli impacci decisionali della prima repubblica dei “partiti” (durante la quale peraltro partirono anche progetti di grande respiro), alla mortifera logica moralistico-repressiva del ’92 (il colpo finale). Forse solo con il primo Albertini (con Giorgio Goggi. Maurizio Lupi, Stefano Parisi) c’è stata una stagione di ripresa. Poi un po’ affossata dall’amministrazione Moratti, che pure può contare su elementi di valore come l’assessore al territorio Carlo Masseroli. Riprendere una discussione che tenga conto innanzi tutto della storia della città, cioè dell’unico punto solido su cui si possono innescare politiche per lo sviluppo e per l’ambiente, è una forte esigenza di cui si stanno rendendo sempre più conto anche ambienti che pensavano di poterne fare a meno.