“Morire per Kabul” non basta più. In Afghanistan va cambiata strategia
17 Settembre 2009
di redazione
L’attentato di Kabul, il numero elevato delle vittime, le sue modalità, impediscono all’Italia di continuare nella ipocrita finzione durata sinora: in Afghanistan non è in atto una missione di pace, ma una missione di guerra. Non è un problema di parole, è un problema sostanziale, un’ipocrisia che attraversa tutta la lotta al terrorismo dall’11 settembre 2001 in poi. Un’ipocrisia diventata parossistica nei due anni dell’ultimo governo Prodi, quando i nostri commandos partecipavano ad azioni offensive, ma di nascosto, acquisendo così rispetto dagli alleati e tenendo le acque calme dentro la coalizione con Bertinotti e Diliberto che facevano finta di non sapere.
Un’ipocrisia che riguarda il centro del problema: i Talebani sono una banda di terroristi, tipo al Qaida? Oppure il loro esercito è espressione di un movimento politico che propaganda e attua una legislazione che nega i diritti dell’uomo, che è responsabile di delitti contro l’umanità e che per questo appoggia i terroristi di al Qaida e quindi i Talebani vanno combattuti in nome dell’umanità, esattamente come si dovevano combattere i nazifascisti? La risposta corretta è ovviamente la seconda, ma non basta enuclearla. Se è così, e la loro resistenza a otto anni di impegno Nato dimostra che è così, se è indubbio il loro radicamento popolare tra i pashtun, così come è indubbio il loro legame con i pashtun del Pakistan, in cui sono sempre più forti e radicati, non basta dire che bisogna tenere fermo il piede e non lasciare Kabul. Non basta spiegare in questo modo perché è indispensabile “morire per Kabul”.
Se si sostiene l’evidenza della necessità di contrastare un movimento popolare che combatte per un progetto costellato di crimini contro l’umanità – quale è la loro concezione della sharia- si deve anche ammettere che tutta la strategia è stata sbagliata negli ultimi otto anni in Afghanistan. Tanto sbagliata, quanto è stata giusta quella adottata in extremis dal generale Petraeus in Iraq. E non è una provocazione affermarlo. Petraeus, dopo anni di errori dei suoi predecessori, ha cessato di contrastare i nemici nel “triangolo sunnita”, come fossero solo una “banda”. E andato al centro, ha convinto tutti i capo clan sunniti che li appoggiavano, o che li avevano appoggiati, a rompere il legame che loro veicolavano tra consenso popolare e al qaidisti. Ha coniugato un più marcato e capillare impegno militare, con una altrettanto capillare rete di alleanze politiche sul territorio, isolato per isolato, paese per paese. In Afghanistan, invece, gli Usa e la Nato si sono illuse per otto anni che il consenso tra i pashtun sarebbe stato consolidato da Karzai, mentre alle truppe straniere era riservato il puro combattimento e le –insufficienti- operazioni di ricostruzione (scuole, ospedali, acquedotti, rifornimenti). Ma Karzai, lo si è visto nelle ultime elezioni, si è rivelato un bluff , il solito satrapo orientale –pure molto elegante- che punta a costruire un regime basato sulla corruzione, sicuro di essere ben protetto dagli sponsor occidentali.
Per l’Italia e l’occidente è dunque indispensabile constrastare i disegni feroci e intollerabili dell’islam dei Talebani, è dunque indispensabile “morire per Kabul”, a patto però di un rapido cambio di strategia, di una sua implementazione con tutta la parte politica, con la ricerca del consenso dei pashtun ad un loro gruppo dirigente. L’occasione delle scandalose manipolazioni di Karzai delle ultime elezioni è dunque da cogliere in pieno. Bene ha fatto l’Ue a contestarne la validità. Ora, vanno fatti ulteriori passi avanti, bisogna sganciarsi dal gruppo dirigente di Karzai e favorire il rafforzamento di leader pashtun che sappiano conquistare il cuore e la mente dei pasthun che ancora –e sono molti- credono nei Talebani.