No al rinnovo del permesso di soggiorno per chi si prostituisce

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No al rinnovo del permesso di soggiorno per chi si prostituisce

23 Febbraio 2010

Una recente decisione del Consiglio di Stato (sez. VI, n. 7958 del 13 ottobre 2009) in materia di permesso di soggiorno offre lo spunto per brevi riflessioni sul tema dell’immigrazione e, in particolare, sulle condizioni che possono garantire una civile e ordinata presenza degli extracomunitari all’interno della comunità nazionale.

La questione decisa dal Giudice Amministrativo trae origine dal contenzioso instaurato da una donna nigeriana a seguito del provvedimento con il quale il Questore di Catanzaro aveva respinto la sua istanza di rinnovo del permesso di soggiorno.

Tale diniego era stato motivato con riferimento alla sottoposizione della donna ad indagini da parte dell’autorità giudiziaria per alcuni reati (in materia di prostituzione e furto) nonché all’ammissione della stessa donna di trarre il proprio sostentamento dall’esercizio della prostituzione: tale condotta di vita ed i reati contestati erano stati valutati come motivo valido e sufficiente per ritenere che i redditi della richiedente derivassero in tutto o in parte da fonte illecita.

Contro la sentenza del locale TAR calabrese che, in primo grado, respingeva il ricorso presentato contro il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, la donna proponeva appello al Consiglio di Stato.

Ciò posto, il Giudice Amministrativo ha in primo luogo affermato che, sebbene l’esercizio della prostituzione non costituisca di per sé reato, esso non può comunque considerarsi una fonte lecita di guadagno, perché contrario al buon costume; e, al riguardo, il Consiglio di Stato ricorda come la prostituzione su strada figuri tra le situazioni individuate dal Ministero dell’Interno (D.M. 5.8.2008) come quelle nei cui confronti vanno esercitati i poteri a tutela dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana, recentemente assegnati ai sindaci.

Inoltre, il Consiglio di Stato ripercorre la normativa in materia di immigrazione (D. Lgs. n. 286/1998), la quale dispone che l’ingresso nel territorio nazionale è consentito allo straniero che dimostri di essere in possesso di idonea documentazione atta a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno, nonché la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno; non è ammesso in Italia lo straniero che non soddisfi tali requisiti o che sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato.

La stessa normativa prevede poi che il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati (e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato) quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato.

Infine, è espressamente previsto che ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno la documentazione deve essere riferita alla disponibilità di un reddito da lavoro o da altra fonte lecita (DPR. n. 394/1999, recante il regolamento di attuazione del citato D. Lgs. n. 286/1998).

In sintesi, da tale quadro normativo emerge che la fonte di reddito per il sostentamento dello straniero e del suo nucleo familiare deve essere lecita, ciò che appunto non può avvenire in presenza dell’esercizio dell’attività di meretricio.

Particolarmente interessante appare il passaggio della decisione in cui si afferma che “La situazione reddituale è espressione, oltre che della condizione di autonomia sul piano economico dello straniero, la cui presenza nel territorio nazionale non deve introdurre aggravio alla comunità nazionale, della doverosità sul piano sociale dello svolgimento di un lavoro, attività o funzione, che concorra allo sviluppo materiale spirituale del Paese, con assolvimento di detto obbligo al pari di ogni cittadino italiano secondo quanto enunciato dall’ art. 4, comma secondo, della Costituzione”.

Con il che si sancisce un principio del tutto condivisibile, anche alla luce di recenti note vicende di ordine pubblico che hanno interessato il territorio calabrese: l’inserimento della persona extracomunitaria nell’ambito della comunità nazionale passa attraverso lo svolgimento di un lavoro in condizioni di legalità, poiché solo questa condizione è in grado di assicurare una reale integrazione e di evitare fenomeni di sfruttamento e di nuovo schiavismo.

Si tratta di una prospettiva che non può che essere salutata con favore da chi coltiva una visione personalistica, considerando l’extracomunitario un essere umano nei cui riguardi occorre assicurare il rispetto dei diritti fondamentali della persona e della sua dignità.

Una visione che, proprio in quanto tale, rifiuta le posizioni di chi, in nome di un astratto quanto bugiardo solidarismo, predica l’apertura incondizionata delle frontiere nazionali, anche quando questo significa niente altro che arruolare nuovi disperati senza lavoro tra le fila della criminalità organizzata, oggi peraltro sottoposta alla dura campagna repressiva di un governo come mai deciso a debellare questo cancro.

Di fronte alle continue doglianze dei tanti maître à penser in merito all’emersione o alla recrudescenza nel nostro Paese di episodi di razzismo, sorge spontaneo chiedersi: è razzismo pretendere che chi entra in Italia abbia di che vivere in modo onesto e nel rispetto della legalità e dell’ordine pubblico o disinteressarsi completamente delle sue fonti di sostentamento? È razzismo contrastare i tentativi di riduzione in schiavitù di chi fugge in condizioni disperate dal proprio paese d’origine o chiudere gli occhi di fronte alle piaghe della prostituzione, dello spaccio di droga e di altre manifestazioni di criminalità che vedono spesso protagonisti gli extracomunitari? È razzismo pretendere il rispetto di elementari norme igienico-sanitarie nell’utilizzo degli alloggi delle nostre città o fingere di non conoscere il degrado sub-umano in cui spesso sono costretti a vivere gli extracomunitari?

A queste domande il Consiglio di Stato ha dato una risposta che, oltre che esatta in punto di diritto, merita un plauso per il suo buon senso.