No di avvocati e magistrati al reato di clandestinità

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No di avvocati e magistrati al reato di clandestinità

06 Giugno 2008

Il reato di clandestinità riesce a mettere d’accordo, caso più unico che raro, avvocati e magistrati. I primi contrari per motivi di garantismo allo stato puro, i secondi per motivi pratici: "E’ pressoché impossibile celebrare ogni giorno centinaia di udienze di convalida dell’arresto e processi per direttissima". Paradossalmente questa doppia convergenza toglie le castagne dal fuoco allo stesso premier Silvio Berlusconi che oggi ha parlato anche di immigrazione e di accoglienza nei 40 minuti di udienza privata concessigli da papa Benedetto XVI. E se all’introduzione di questo reato di clandestinità, peraltro conosciuto e adottato in vari paesi europei come la Germania e la Francia, si oppongono entrambi i protagonisti del processo penale in Italia, cioè la casta dei magistrati e quella degli avvocati, potrebbe diventare più facile fare digerire la pillola della trasformazione del reato presente nel progetto originario del pacchetto sicurezza in semplice aggravante da contestare al clandestino che eventualmente commetta altri reati.

I magistrati ieri erano tutti riuniti nel congresso del loro sindacato ipercorporativo, l’Anm, alla presenza anche del Capo dello Stato. E’ questa un’usanza assai negativa: l’Anm non è il Csm che il Presidente della Repubblica presiede, per cui non si capisce perché la massima autorità debba partecipare alle assemblee di un sindacato sia pure quello della casta più potente d’Italia. Nessuno ha mai visto un Capo dello Stato a un’assemblea della Fnsi o della Fiom, tanto per fare un esempio. Molti dicono che in realtà proprio così i giudici si sentono legittimati a costituire un vero e proprio partito. Sia come sia, proprio dall’auditorium di Renzo Piano a Roma, dove l’Anm teneva il proprio congresso alla presenza di Napolitano, sono arrivati oggi i primi “niet” al pacchetto sicurezza del governo, in special modo per quel che riguarda l’introduzione del reato di clandestinità. Il no al reato , alla pena di quattro anni e al processo per direttissima per chi entrasse clandestino in Italia, è arrivato proprio dal nuovo segretario dell’Anm, il magistrato Luca Palamara, secondo il quale le conseguenze pratiche di questa scelta porterebbero alla paralisi dell’apparato giudiziario e di quello carcerario. Che in realtà stanno già ben oltre il limite di emergenza.

Come si diceva l’Unione delle camere penali italiane, l’Ucpi, si spinge oltre in un documento di dieci pagine licenziato due giorni orsono dalla giunta esecutiva presieduta dal professor Oreste Dominioni. Per gli avvocati anche l’aggravante della clandestinità avrebbe profili incostituzionali e mal celerebbe i nuovi intenti forcaioli in materia di giustizia e di sicurezza da parte del governo in carica. La condanna non potrebbe essere più netta al di là del linguaggio solennemente “giuridichese”: "L’art. 61 n. 11-bis c.p. si ispira chiaramente ad una ideologia punitiva orientata alla neutralizzazione del clandestino/nemico pericoloso (secondo il paradigma del Œdiritto penale del nemico, in anni recenti elaborato da Günther Jakobs e intorno si è alimentato un ampio dibattito, tuttora vivo, nella dottrina penalistica europea e statunitense) che viene immesso in un circuito di commisurazione sanzionatoria parallelo a quello ordinario, caratterizzato da un maggiore tasso di rigore repressivo". E ancora: "…nella stigmatizzazione punitiva della irregolarità del soggiorno in sé, l’ordinamento mostra ancora una volta di distorcere la funzione dello strumento penale, piegato a sottolineare disvalori soggettivi anziché la maggiore rilevanza negativa di forme di aggressione a beni giuridici".

Per gli avvocati inoltre, "la previsione di aumenti di pena, ancorati alla mera condizione di irregolarità, finisce col trasformare l’irregolare in una tipologia di autore valutato meritevole di un trattamento differenziato in senso repressivo; ma, in tal modo, il fulcro del giudizio penale si sposta dal “fatto” all’”autore”, con conseguente rottura dell’equilibrio politico-criminale imposto dalla dimensione costituzionalmente orientata del diritto penale, in cui ­com’è noto, il disvalore oggettivo (nei suoi aspetti del disvalore di azione e/o di evento) segna un’antecedenza assiologia rispetto al disvalore soggettivo, costituito dai criteri personali della imputazione di responsabilità".
E anche il sindacato delle toghe, sempre per bocca di Palamara, non è convinto dalla bontà dell’introduzione dell’aggravante comune legata alla condizione di irregolarità dello straniero sul territorio nazionale. Che, "ove non diversamente calibrata" – spiega Palamara – "potrebbe determinare un aumento della pena esclusivamente in ragione della condizione soggettiva del colpevole anche nei casi in cui non si ravvisi alcuna incidenza sul disvalore del fatto determinando in tal modo una eventuale incompatibilità con il principio di eguaglianza".

Chiaro che queste osservazioni di dottrina attualmente non risultano di certo vincenti, tanto nell’opinione pubblica, all’uopo sobillata da alcuni media che esaltano l’allarme sicurezza, quanto nella testa dei politici al governo e all’opposizione. Però esiste anche la Corte Costituzionale e bisogna tenerne conto prima se non si vuole imprecare dopo. Infine, è anche vero che la simultanea e conclamata ostilità delle due categorie del diritto più importanti per mandare avanti la macchina giudiziaria può costituire un ottimo viatico per Berlusconi per fare digerire a Bossi quelle modifiche in materia di sicurezza e integrazione degli extra comunitari che anche il Vaticano gli ha oggi solennemente richiesto.