Obama: con il Papa una collaborazione per aiutare il mondo
03 Luglio 2009
Barack Obama intende chiedere agli Otto Grandi che si riuniranno all’Aquila la prossima settimana di aumentare i loro sforzi in aiuto dei Paesi poveri, quelli maggiormente colpiti dalla recessione globale. All’Italia, in particolare, il presidente americano chiederà invece di fare di più per sostenere lo sviluppo economico dell’Afghanistan. E con papa Benedetto XVI, che incontrerà al termine del G8, il leader Usa è ansioso di discutere il modo di far ripartire il processo di pace in Medio Oriente. Durante una lunga intervista nella West Wing della Casa Bianca con un ristrettissimo gruppo di giornali, fra i quali Avvenire era l’unico quotidiano italiano, Obama ha illustrato le sue aspettative per il viaggio che mercoledì prossimo lo porterà in Italia e in Vaticano.
Presentatosi nell’intima Roosevelt Room esattamente alle 10 e mezzo della mattina di ieri, come previsto, Barack Obama ha risposto per più di un’ora a una dozzina di domande poste dalla manciata di cronisti (domande che non erano state anticipate alla Casa Bianca) senza mai rifiutarsi di commentare gli argomenti che gli venivano presentati. Nelle sue risposte si è sempre sforzato di sottolineare gli elementi positivi di tutte le posizioni, soprattutto sui temi più controversi. Quella che segue è un’amplissima sintesi della conversazione.
Signor presidente, quale impegno spera emerga dal G8 dell’Aquila nei confronti dei Paesi più poveri?
Dal G8 vorrei poter ottenere la convinzione che eravamo seri quando ci siamo incontrati a Londra e abbiamo specificamente parlato della necessità non solo di stabilizzare l’economia, ma anche di far sì che gli effetti immediati della crisi non siano subiti in modo sproporzionato dai Paesi più vulnerabili. Come risultato dell’incontro di Londra, abbiamo cercato i modi per contribuire a rendere l’impatto della crisi meno duro. Per questo ho fatto approvare dal Congresso uno stanziamento di 100 miliardi di dollari in crediti per il Fondo monetario internazionale, da usare come strumento di sostegno ai Paesi in via di sviluppo. Come Stati Uniti, inoltre, abbiamo già in programma di raddoppiare gli aiuti alle nazioni povere, non solo per interventi immediati, ma anche per il futuro. La priorità dell’America al prossimo G8 è proprio di indurre gli altri Paesi a fare altrettanto.
Il Papa, durante il suo recente viaggio in Terra Santa, ha invocato una «pace giusta e duratura». I negoziati di pace in Medio Oriente sono tuttavia giunti a uno stallo, in parte a causa delle resistenze di Israele a fermare la crescita degli insediamenti in Cisgiordania. Come pensa di convincere lo Stato ebraico a superare queste resistenze e come intende far ripartire un negoziato basato sul principio di due popoli, due Stati?
Con gli israeliani siamo stati molto chiari nell’affermare che gli insediamenti devono essere fermati. Ma sappiamo che non sarà facile per Israele, perché gli insediamenti continuano da molti anni. Il primo ministro Netanyahu inoltre deve fare i conti con una serie di difficili condizioni politiche in patria. Ciò detto, i colloqui che stiamo avendo con gli israeliani sono molto costruttivi. D’altra parte, non è solo colpa di Israele. I palestinesi hanno la responsabilità di fermare la violenza e i Paesi arabi della regione devono capire che, se Israele è chiamato a prendere decisioni politiche assai difficili, loro devono riconoscere che lo Stato ebraico ha bisogno di sicurezza, come ogni altro Paese. Ciò che gli Stati Uniti possono fare, senza imporre la soluzione, è mettere uno specchio di fronte a entrambe le parti per mostrare loro le conseguenze delle proprie azioni. Questo è un tema sul quale sono ansioso di discutere con il Santo Padre, che credo condivida il mio approccio.
Quali altri temi intende affrontare con Benedetto XVI?
Ho avuto una meravigliosa conversazione telefonica con il Papa subito dopo le elezioni. E sebbene politicamente veda l’incontro come un colloquio con un capo di governo straniero, mi rendo conto che, naturalmente, è molto di più. Capisco bene quale influenza il Papa abbia, ben oltre i confini della Chiesa cattolica. Il Pontefice gode del mio massimo rispetto personale, come figura che unisce una grande cultura a una grande sensibilità. L’opera che ha svolto per il dialogo fra le fedi è notevole. E immagino abbia già sperimentato il rischio che deriva dal mettere insieme, a confronto, gruppi di posizioni opposte, come si è visto in Israele. Ma bisogna essere convinti del fatto che avviare il processo, far partire il dialogo, può portare a maggiore comprensione fra chi è stato su fronti diversi. Spero che con il Santo Padre saremo in grado di trovare temi sui quali avere una duratura collaborazione: dalla pace in Medio Oriente alla lotta alla povertà, dai cambiamenti climatici all’immigrazione. Tutti ambiti nei quali il Papa ha assunto una leadership straordinaria.
In molti altri ambiti, in particolare sul rispetto della vita e del matrimonio, la Chiesa cattolica, e i vescovi cattolici americani, hanno però espresso critiche e preoccupazioni nei confronti delle sue posizioni. Come pensa di affrontare tali critiche? O ritiene che finirà con l’ignorarle?
Non ci sarà mai un momento in cui deciderò di ignorare le critiche dei vescovi cattolici, perché sono il presidente di tutti gli americani e non solo di quelli che, per caso, sono d’accordo con me. Prendo molto seriamente le opinioni delle altre persone e i vescovi americani hanno una profonda influenza sulla Chiesa e anche sulla comunità nazionale. Vari vescovi sono stati generosi nelle loro opinioni e incoraggianti nei miei confronti, benché rimangano differenze su alcune questioni. Difenderò sempre con forza il diritto dei vescovi di criticarmi, anche con toni appassionati. E sarei felice di ospitarli qui alla Casa Bianca a parlare dei temi che ci uniscono e di quelli che ci dividono, in una serie di tavole rotonde. Ci saranno tuttavia sempre ambiti nei quali non sarà possibile trovare pieno accordo.
Lei ha nominato un gruppo di lavoro, composto da rappresentanti dei movimenti che difendono la vita e di associazioni che sostengono il diritto all’aborto, con lo scopo di trovare posizioni comuni. Quali sono le sue attese realistiche sul risultato dei lavori?
Quel gruppo dovrà fornirmi un rapporto finale entro l’estate e non ho l’illusione che sia in grado, con il solo dibattito, di fare scomparire le differenze. So che ci sono punti in cui il conflitto non è conciliabile. La cosa migliore che possiamo fare è ribadire che esistono persone di buona volontà su entrambe i fronti e che si possono trovare elementi sui quali lavorare insieme. Fra questi, la necessità di aiutare i giovani a prendere decisioni intelligenti in modo che evitino gravidanze non desiderate, l’importanza di rafforzare l’accesso all’adozione come alternativa all’aborto e il dovere di prendersi cura delle donne incinte e di aiutarle a crescere i loro bambini. Ci sono elementi, come la contraccezione, sui quali le differenze sono profonde. La mia posizione personalmente è che si debba coniugare una solida educazione morale e sessuale alla disponibilità di contraccettivi. Riconosco che ciò va in conflitto con la dottrina della Chiesa cattolica. Ma sarei sorpreso se i sostenitori del diritto all’aborto non fossero d’accordo che bisogna ridurre le circostanze in cui una donna decide di interrompere la gravidanza.
Alcuni cattolici lodano il suo contributo alla promozione di temi di giustizia sociale, altri la criticano per la sua posizione sui temi della vita, dall’aborto alla ricerca sulle cellule staminali. La vede come una contraddizione?
Questa tensione del mondo cattolico esisteva ben prima del mio arrivo alla Casa Bianca. Quando ho cominciato a interessarmi di giustizia sociale, a Chicago, i vescovi cattolici parlavano di immigrazione, nucleare, poveri, politica estera. Poi, a un certo punto, l’attenzione della Chiesa cattolica si è spostata verso l’aborto e ciò ha avuto il potere di spostare l’opinione del Congresso e del Paese nella stessa direzione. Sono temi cui penso molto, ma non sta a me risolvere queste tensioni. Ho visto tuttavia come si possa tentare una conciliazione. Il cardinal Joseph Bernardin, che ho conosciuto a Chicago, parlava chiaramente ed esplicitamente della difesa della vita. E vi includeva anche la lotta alla povertà, il benessere dell’infanzia, la pena di morte. Questa parte della tradizione cattolica mi ispira continuamente e ha avuto un forte impatto su mia moglie. A volte penso che sia stata seppellita sotto il dibattito sull’aborto. Desidero invece che resti in primo piano nel dibattito nazionale.
Signor presidente, ha già scelto una chiesa da frequentare con la sua famiglia?
Io e Michelle abbiamo deciso di prendere tempo prima di scegliere la nostra prossima parrocchia perché, onestamente, siamo rimasti profondamente colpiti, turbati e delusi da quanto è successo a Trinity Church con il reverendo Wright (il pastore nero che ha fatto da padre spirituale ad Obama per 20 anni e che, durante la campagna elettorale, fece scalpore per la sua “maledizione” all’America, ndr). Sappiamo anche che la chiesa che frequentiamo può essere vista come la nostra "portavoce". E sappiamo che la nostra presenza rende la vita difficile agli altri fedeli. Potremmo decidere di spostarci fra diverse di parrocchie, anche se questo ci toglierebbe l’esperienza di appartenere a una comunità e di partecipare alla vita della chiesa. Mi aiuta però avere un gruppo di pastori di diverse denominazioni che vengono a pregare con noi. Inoltre, Joshua (Joseph DuBois, dell’ufficio della Casa Bianca per le iniziative fondate sulla fede, ndr) mi manda una riflessione devozionale ogni mattina sul mio Blackberry. Ha cominciato a farlo durante un momento difficile della campagna elettorale ed è un’abitudine che mi offre uno spunto su cui riflettere ogni giorno e che apprezzo moltissimo.
Molte persone, non solo medici, che offrono la propria opera in istituzioni e organizzazioni non governative sono molto preoccupate di non poter esercitare obiezione di coscienza in campi eticamente sensibili. La posizione della sua Amministrazione in merito non è del tutto chiara…
Sono fermamente convinto della necessità di avere una forte obiezioni di coscienza nel nostro Paese. L’ho difesa nel Parlamento dell’Illinois, ne ho discusso con il cardinale Francis George qui nello Studio Ovale e l’ho ripetuto durante il mio intervento all’università di Notre Dame. Capisco che c’è qualcuno che si aspetta sempre il peggio da me su certi temi, ma è più un preconcetto che una posizione motivata da una "linea dura" che staremmo cercando di imporre. La confusione può essere derivata dal fatto che abbiamo cancellato una misura sull’obiezione di coscienza approvata negli ultimissimi giorni di governo del mio predecessore solo perché non era stata formulata chiaramente. Ma stiamo rivedendo la questione e abbiamo richiesto pareri in merito alla gente, ricevendone centinaia di migliaia. Presto renderemo note linee guida più dettagliate e vi assicuro che conterranno una precisa difesa dell’obiezione di coscienza. Non più debole di quella che esisteva durante l’amministrazione Bush.
Come concilia la sua fede con le promesse fatte durante la campagna elettorale agli omosessuali?
Quanto alla comunità gay e lesbica di questo Paese, penso che venga ferita da alcuni insegnamenti della Chiesa cattolica e dalla dottrina cristiana in generale. Come cristiano, combatto continuamente fra la mia fede e i miei doveri e le mie preoccupazioni nei confronti di gay e lesbiche. E spesso scopro che c’è molto ardore su entrambi i fronti del dibattito, anche fra chi considero essere ottime persone. D’altra parte, rimango fermo a quanto ho espresso al Cairo: ogni posizione che liquidi in modo automatico le convinzioni religiose e il credo altrui come intolleranti non capisce il potere della fede e il bene che compie nel mondo. In ogni caso, come persone di fede dobbiamo esaminare le nostre convinzioni e chiederci se a volte non stiamo causando sofferenza agli altri. Penso che tutti noi, di qualsiasi fede, dovremmo riconoscere che ci sono state volte in cui la religione non è stata messa al servizio del bene. E sta a noi, penso, compiere una profonda riflessione ed essere disposti a chiederci se stiamo agendo in modo coerente non solo con gli insegnamenti della Chiesa, ma anche con quanto Gesù Cristo, Nostro Signore, ci ha chiamati a fare: trattare gli altri come noi vorremmo essere trattati.
Presidente, per concludere, si aspetta che l’Italia faccia di più per la sicurezza in Afghanistan in vista delle elezioni presidenziali di fine estate? E in che ambito precisamente?
L’Italia ci ha già aiutati molto in Afghanistan con il suo impegno militare. Quello di cui continuiamo ad avere bisogno è collaborazione nell’addestramento delle forze locali, che dovranno, prima o poi, assumersi la responsabilità della difesa del loro Paese. La comunità internazionale deve anche aumentare i propri sforzi tesi ad accelerare e facilitare lo sviluppo economico afghano, a creare infrastrutture, occupazione, scambi commerciali, a espandere l’istruzione, in modo da offrire alla popolazione un’alternativa alla coltivazione dell’oppio. Di questo parlerò esplicitamente con il premier Berlusconi durante il G8 dell’Aquila.
(da l’Avvenire)