Per pagare meno l’energia servono impegno tecnico e volontà politica

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Per pagare meno l’energia servono impegno tecnico e volontà politica

Per pagare meno l’energia servono impegno tecnico e volontà politica

22 Settembre 2009

L’Ocse boccia l’energia italiana. Nell’ultimo rapporto sull’economia dell’Unione europea, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico rileva che i prezzi dell’elettricità per le imprese sono, nel nostro paese, più alti che in tutti gli altri Stati membri, e addirittura di cinque volte superiori a quelli francesi.

Tale constatazione si inserisce nell’ambito di una riflessione di più ampia portata sull’organizzazione dei mercati energetici comunitari, che conduce gli economisti di Parigi a criticare la troppa timidezza dei paesi dell’Ue nel perseguire politiche di liberalizzazione, e il deludente livello di integrazione dei mercati nazionali. Paradossalmente, in questa prospettiva l’Italia non viene criticata più degli altri, anzi: le scelte compiute nel passato ci mettono, per tanti versi, all’avanguardia. Come si spiega, allora, l’apparente scollamento tra lo sforzo di aprire il mercato e lo svantaggio competitivo che grava sulla nostra economia?

Anzitutto, c’è un problema di confrontabilità dei dati. Probabilmente è vero che l’elettricità costa ai francesi meno che agli italiani, ma una distanza tanto abissale dipende anche dal fatto che una parte almeno dei costi – quelli connessi alla chiusura del ciclo nucleare – vengono di fatto scaricati, Oltralpe, sulla fiscalità generale.

Inoltre, a complicare la comparazione è la componente fiscale e tariffaria, che in Italia incide in misura non banale sul prezzo del chilowattora. Infine, per quanto la liberalizzazione elettrica sia andata avanti – tanto che l’Indice delle liberalizzazioni www.liberalizzazioni.it dell’Istituto Bruno Leoni valuta il grado di apertura del settore al 77 per cento – restano dei punti oscuri.

Per esempio, a livello locale le municipalizzate sono spesso ancora capaci di esercitare un potere quasi monopolistico, impedendo l’effettiva fruizione dei benefici della libertà di scelta. A questo si aggiunge la precarietà della rete di trasmissione nazionale, che in alcune zone (principalmente nel sud) non è assolutamente in grado di garantire l’equivalenza tra domanda e offerta. Il fatto che il prezzo dell’elettricità, dal lato della domanda, sia lo stesso in tutta Italia, mentre dal lato dell’offerta sia articolato secondo “macrozone”, aggiunge un elemento di distorsione. Se infatti serve come una forma di sussidio dai consumatori settentrionali a quelli meridionali, finisce per inviare un messaggio falso e fa sì che l’esigenza di investimenti massicci nel potenziamento delle linee sia avvertita come meno pressante.

Ma c’è un problema più profondo: il mix di generazione, ossia il modo in cui le imprese elettriche producono la loro elettricità. La Francia dipende, per quasi l’80 per cento, dal nucleare; l’Italia si è affidata, per circa il 60 per cento, al gas. Sebbene i nostri impianti siano in larga misura recenti, e quindi molto efficienti, fanno quasi tutti perno sulle medesime tecnologie, e quindi le differenze nei costi di generazione sono marginali.

Inoltre, l’impossibilità – dettata da motivi perlopiù politici – di costruire un portafoglio di fonti più variegato, includendo anche l’atomo e, in parte, il carbone nel mix, non solo danneggia la competizione, ma si rivela controproducente in una fase storica caratterizzata da prezzi petroliferi, e quindi del metano, relativamente alti rispetto ai valori storici. Del resto, l’Italia rappresenta un’anomalia rispetto a qualsiasi altro paese industrializzato, proprio per l’assenza del nucleare e il ruolo gregario assegnato al carbone: sarebbe ingenuo pensare che ciò resti senza conseguenze.

L’eccessiva dipendenza dal gas è resa ancor più patologica, in termini di costi e quindi di prezzi, dalla rigidità del mercato del metano. Esso è ancora dominato dall’ex monopolista, l’Eni, e sconta una inadeguatezza infrastrutturale che solo alla fine di quest’anno, con l’ingresso in funzione del rigassificatore di Rovigo, lascerà respiro (anche grazie al crollo della domanda causato dalla crisi). Se si sommano le varie componenti, si capisce il perché dello scollamento tra l’Italia e l’Europa.

In un certo senso, le condizioni al contorno (mix poco diversificato, inadeguatezza della rete, peso sulla bolletta delle voci fiscale e tariffaria, rigidità del mercato del gas, prezzo unico nazionale) fanno premio sui potenziali vantaggi competitivi del nostro paese – come la regolamentazione ragionevolmente buona e la scelta a favore della liberalizzazione.

Non c’è, insomma, una ragione ovvia per cui siamo sfavoriti: esistono una molteplicità di spiegazioni, ciascuna delle quali richiede impegno tecnico e volontà politica per essere superata. Se mancheranno l’uno o l’altra, continueremo a pagare e soffrire di più.