Perché con il Federalismo fiscale l’Italia sarà un paese migliore

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Perché con il Federalismo fiscale l’Italia sarà un paese migliore

26 Febbraio 2009

Nel 1959 Luigi Einaudi scriveva: “Se regioni, provincie, comuni devono ricorrere ad entrate proprie, nasce il controllo dei cittadini sulla spesa pubblica, nasce la speranza di una gestione sensata del danaro pubblico. Se gli enti territoriali minori vivono di proventi ricevuti o rinunciati dallo stato… o vivono, come accade, addirittura di sussidi, manca l’orgoglio del vivere del frutto del proprio sacrificio e nasce la psicologia del vivere a spese altrui”.

Le parole dello statista piemontese, a dir poco coraggiose in un contesto storico-politico che avrebbe puntellato per decenni un rigido centralismo statuale di matrice giacobina, appaiono oggi quanto mai utili per comprendere il tema del cosiddetto federalismo fiscale.

La dimensione finanziaria è il nodo cruciale di quel fenomeno costituzionale, politico e culturale che si è soliti definire devolution: sono, infatti, i poteri finanziari riconosciuti alle amministrazioni devolute che determinano, in massima parte, il loro grado di reale autonomia. Avviato in una prima fase attraverso la legislazione ordinaria (D. Lgs. n. 56/2000), il federalismo fiscale ha ricevuto in Italia dignità costituzionale con la riforma (per molti aspetti incompiuta) del Titolo V della Costituzione del 2001. All’attuazione del complesso disegno costituzionale mira ora il ddl presentato dal Governo nell’ottobre 2008 e approvato dal Senato alla fine dello scorso gennaio.

Dopo il lavoro (tra il 2003 e il 2006) dell’Alta commissione di studio per la definizione dei meccanismi strutturali del federalismo fiscale (A.Co.F.F.) e la presentazione da parte del Governo Prodi, nell’agosto 2007, di un primo ddl per l’attuazione dell’art. 119 Cost. (impantanatosi fin dall’inizio dell’esame parlamentare a causa delle insanabili contraddizioni dell’allora maggioranza di centro-sinistra), il ddl Calderoli porta a sintesi tutti i contributi emersi nel corso di questi anni.

Al di là degli aspetti tecnici che lo caratterizzano, il testo sembra animato dal meritorio tentativo di superare l’impostazione che ha contrassegnato buona parte del dibattito pubblico sviluppatosi dopo la riforma del 2001: un dibattito nel quale, aldilà di catastrofiche previsioni sulla tenuta dell’unita nazionale e dei bilanci pubblici, non sembrano essere state compiutamente esplorate le potenzialità democratiche del federalismo fiscale, in chiave di responsabilizzazione delle classi dirigenti locali e di valorizzazione del principio di sussidiarietà. In tal senso il ddl – ribadita la necessità di salvaguardare l’appartenenza ad un’unica comunità nazionale attraverso la garanzia del godimento dei diritti fondamentali secondo standard uniformi in tutte le aree del Paese – dimostra consapevolezza del fatto che il federalismo fiscale può incidere in senso innovativo non soltanto sui modi di espletamento delle potestà impositive, ma anche sulle forme organizzative dell’intero complesso delle istituzioni pubbliche nazionali.

In primo luogo, una finanza decentrata può consentire un controllo diffuso e generalizzato delle comunità locali nei confronti dell’elaborazione e attuazione delle politiche pubbliche dei rispettivi rappresentanti, favorendo spazi di partecipazione politica che un sistema di scelte fiscali lontano dai singoli territori (e di connessa dissociazione fra responsabilità impositiva e responsabilità di spesa) ha sempre impedito.

Un fisco geograficamente lontano dalle comunità su cui ricade l’esercizio della potestà impositiva tradisce i più elementari postulati della democrazia rappresentativa, per i quali chi spende denaro pubblico deve avere, almeno in parte, il potere di riscuotere tasse, così da permettere al proprio elettorato un giudizio politico in ordine agli indirizzi finanziati con la stessa spesa.  

In altri termini, la responsabilizzazione del ceto politico locale indotta dall’autonomia finanziaria realizza una declinazione moderna dell’antico motto “No taxation without representation”, alla base della rivoluzione costituzionale americana. D’altro canto, lo stesso federalismo fiscale può contribuire ad attuare quel principio di sussidiarietà nel cui segno promuovere una lettura personalistica e solidale della Costituzione italiana. Per il tramite di tale principio si dà vita non solo ad un trasferimento di poteri lungo una direttrice verticale ma anche, su un piano orizzontale, all’apertura di settori di attività ad operatori diversi da quelli burocratici: infatti, il principio di sussidiarietà rompe il monopolio statale nell’erogazione dei servizi sociali, i cui costi e le cui inefficienze hanno spesso fatto sì che le garanzie universalistiche dei diritti sociali fossero spesso enfaticamente predicate piuttosto che realmente praticate. Si tratta di porre fine al mito giacobino (rivelatosi falso alla prova dei fatti) della necessità che ogni intervento di sostegno e di solidarietà sociale debba transitare attraverso l’apparato pubblico.

Come afferma il recente Libro Verde sul futuro del modello sociale elaborato dal Ministero del Lavoro, “è giunto il momento di gettare le fondamenta per un nuovo Welfare che, per garantire pari opportunità e diritti sostenibili lungo l’intero ciclo di vita a tutti i componenti della società, si avvalga primariamente, e in una logica di piena sussidiarietà, del contributo di soggetti responsabilmente attivi. Soggetti che, proprio in quanto tali e in quanto messi nella condizione di sviluppare pienamente le proprie potenzialità, sono capaci di essere utili a sé e agli altri”. Un Welfare così definito potrebbe offrire, se non migliori, almeno ulteriori prospettive soprattutto a quelle categorie di cittadini oggi penalizzate da una società bloccata e incapace di valorizzare tutto il proprio capitale umano. Una società bloccata anche dalle culture burocratiche (spesso di matrice radical-progressista) ancora egemoni in questo Paese, che hanno assegnato il primato al sistema delle clientele e degli apparati garanti di protezione, a discapito del riconoscimento del merito, del talento, dell’impegno e dei bisogni personali.

In conclusione, è di tutta evidenza come il federalismo fiscale sia un tema che coinvolga i contenuti della stessa cittadinanza costituzionale; un tema il cui svolgimento necessita di approcci non ideologicamente ancorati a visioni assistenzialistico-centraliste ma capaci, all’opposto, di coniugare autonomia e responsabilità, differenziazione e perequazione, intervento pubblico e sussidiarietà.
 L’obiettivo è quello, indicato da Luigi Sturzo nell’Appello ai liberi e forti del 1919, di sostituire ad uno Stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica, “uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private”.

Solo così potranno realizzarsi quelle dimensioni di autentica attenzione per la dignità e la libertà della persona che rappresentano fra i migliori contributi del cristianesimo e della cultura umanistica alla costruzione dell’Occidente.