Quando i quattro di Liverpool attraversarono in fila indiana Abbey Road
18 Settembre 2009
di redazione
Quando arrivi sul bordo del marciapiede di questa lunga strada alberata, affogata in un quartiere ricco del centro di Londra, ancora prima di mettere piede sulle strisce, qualcuno dall’altra parte della carreggiata comincia già a rallentare. Restano fermi anche se tu esiti ad attraversare: sanno che probabilmente vuoi farti scattare una foto. E’ così da quarant’anni. E aspettano. Anche diversi minuti. Di fronte hai un muretto bianco ricoperto di scritte, dietro il quale scorgi la casetta a due piani sede della Emi, con i gerani alle finestre e i segreti del rock racchiusi gelosamente dentro le proprie mura. Sei lì, a un passo dalla storia, con i piedi sopra la storia mentre attraversi , e non puoi evitare di domandarti: ma come hanno fatto? La domanda non è scontata, né banale.
Come hanno fatto i Beatles a produrre il loro capolavoro assoluto, Abbey Road, nei mesi dell’estate del 1969 quando ormai non riuscivano più nemmeno a guardarsi negli occhi senza litigare? La loro non era stata una storia comune, e quella dell’ultimo lp, dell’ultima traccia prodotta nella loro carriera insieme, lo è ancora meno. I Beatles del 1969 erano quattro giovani uomini infinitamente ricchi e altrettanto infinitamente provati dalla logorante convivenza degli ultimi sette anni. Venivano dalla travagliata gestazione di Let It Be, uscito nel 1970 dopo lo scioglimento del gruppo, che aveva accentuato le loro divergenze nell’inverno di quell’anno. Erano stati i primi a suonare in uno stadio nel 1965, e l’ultimo concerto l’avevano organizzato sul tetto di Savile Row, in una fredda mattina di gennaio, dove la gente non poteva nemmeno vederli.
Li avrebbero ascoltati dall’alto, volenti o nolenti, in una sorta di beffardo contrappasso per quelle centinaia di esibizioni che avevano tenuto in giro per il mondo senza sentire assolutamente nulla di ciò che stavano suonando, soffocati dalle urla e dall’isteria della folla.
L’essere i numeri uno assoluti li aveva resi presuntuosi e dipendenti dalle droghe. Viziati e prepotenti. Tanto che per il progetto Let It Be si erano convinti di potere fare a meno anche di George Martin, lo storico produttore che li aveva portati nel punto in cui erano, in cima al mondo. Erano perfino arrivati al punto di dare vita alla loro casa di produzione discografica, la Apple, che gettava soldi dalla finestra come un idrante butta acqua d’estate.
Tutto il mondo aspettava la loro prossima mossa con la trepidazione che si riserva ai guru, ai rivoluzionari, a quelli che spostano in avanti i confini del possibile; e loro quattro si erano convinti da un paio d’anni che bastasse farsi venire un’idea qualsiasi perché fosse vincente: a patto che fosse targata Beatles. Non era vero ovviamente, perché qualsiasi grande risultato deve essere supportato da un grande impegno, ma la verità è che i Beatles della fine degli anni Sessanta erano come le onde che si infrangono sugli scogli: niente dura per sempre, le canzoni in fondo non possono cambiare davvero il mondo, e quando hai finito di registrare il pezzo e riposto il tuo strumento nella custodia non puoi fare altro che andartene a casa e vedere se sei felice anche come uomo, oltre che come musicista.
Quei quattro avevano ottenuto tutto dalla propria carriera artistica, ma sul piano umano era un’altra faccenda. Paul McCartney, che si era appena sposato con la fotografa newyorchese Linda Eastman, era il più preoccupato per la fine dell’avventura. Anzi, si può dire che ne era terrorizzato, e reagiva proponendo ai colleghi un nuovo progetto ogni settimana. Gli altri, ormai, avevano poca voglia di starlo a sentire: George Harrison alternava lo studio della chitarra a quello del sitar e della meditazione trascendentale: nell’equilibrio cosmico dell’universo non vedeva come una band di musica leggera, sia pure la più grande di tutte, potesse fare la differenza.
John Lennon aveva appena trovato in Yoko Ono una forma evoluta di sua madre Julia, che aveva perso a diciassette anni. Per sposarla, si era perfino esposto alle critiche di chi non poteva perdonare, neppure al cantante più famoso del mondo, il divorzio dalla moglie e la separazione dal figlio Julian, che all’epoca aveva appena cinque anni. Con la nuova consorte era andato in giro per gli alberghi del pianeta a inaugurare i bed-in per la pace, e viveva in simbiosi con lei ogni minuto della giornata. Figuriamoci se avrebbe mai rinunciato a portarla con sé anche in studio di registrazione. Il che succedeva regolarmente, anche a costo di fare impazzire il resto del gruppo: che nell’antro magico di Abbey Road non aveva mai tollerato invasori, figurarsi se potevano sopportare una minuta e risoluta giapponese che si permetteva addirittura di criticare una linea vocale cantata in maniera troppo aggressiva o una traccia di chitarra suonata con poco vigore.
Quanto a Ringo Starr, da tutti ritenuto malleabile e fedele scudiero, tra tante minacce senza seguito era stato il primo ad abbandonare concretamente il gruppo: scomparve un paio di settimane nel 1968, durante le registrazioni del White Album, esasperato dai capricci e dai dispetti perpetrati dagli altri tre. Fu in quel momento che iniziò a prendere sul serio la carriera di attore, lasciando in secondo piano quella di batterista.
Era questo il desolante quadro della situazione nella primavera del ’69, quando i Beatles si ritrovarono per lavorare all’ultimo album: i quattro ragazzi di Liverpool non si sopportavano più, talvolta arrivavano a odiarsi e non dimenticate quella sconclusionata faccenda della Apple, che peggiorava ulteriormente le cose.
Erano a capo di un impero economico traballante e dovevano cercare qualcuno che lo gestisse meglio di quanto sapessero fare loro. McCartney propose il suocero, Louis Eastman, uno che gestiva la Kodak e di finanza qualcosina capiva; il che secondo gli altri Beatles passava in secondo piano davanti al fatto che il magnate fosse ormai un parente stretto di Paul. Chi poteva garantire che non avrebbe fatto gli interessi del bassista, sabotando i loro? Perciò proposero per quel ruolo Allan Klein, che un lavoro del genere l’aveva fatto, e bene anche, con i Rolling Stones. Messo alle corde dai suoi stessi colleghi, McCartney dovette ingoiare il rospo e accettare controvoglia quella decisione.
Fino a quel momento i Beatles erano stati un grande apparato democratico, dove non si prendeva una singola decisione nemmeno su quali tovaglioli usare a pranzo senza l’unanimità assoluta. Ma stavolta, amici o non amici, si parlava di un’incalcolabile eredità economica. Perciò si andò ai voti, e di conseguenza alla frattura definitiva. Quei Beatles, quelli dell’ultimo album, sapevano che la loro felicità individuale poteva alimentarsi soltanto sottraendo energia alla felicità artistica che loro stessi avevano innescato con 11 album meravigliosi.
Ma a un certo punto si ricordarono chi erano stati, cosa avevano fatto insieme, e decisero che non potevano finire come i componenti di un gruppo qualsiasi, che si tirano le sedie addosso e si separano senza avere dato al mondo l’ultimo sprazzo di magia. E suona ancora più incredibile come ci siano riusciti, se sono stati capaci di ritrovare una sintonia ormai dispersa. Fu proprio Ringo a dire che ‘senza entusiasmo tra i membri del gruppo, nemmeno la musica può essere entusiasmante’. I Beatles si accusavano reciprocamente in modo semplice e letale: ‘è colpa tua se sono infelice’. Quindi, come potevano tornare a produrre un album felice in quelle condizioni? Decisero di provarci lo stesso. E ci riuscirono.
Anche George Martin fu colpito quando McCartney lo chiamò per esortarlo a produrre un nuovo lavoro. Chiese se fossero certi di volerlo fare, anche lui ne aveva abbastanza dei loro bisticci e un’esperienza del genere non l’avrebbe ripetuta nemmeno sotto tortura. ‘Siamo sicuri’, rispose Paul. ‘Anche John?’ indagò Martin. ‘Anche John’ confermò l’altro. Abbey Road nacque quel giorno. Come idea, ma nella sostanza non sapevano ancora da che parte andare.
Il loro pozzo compositivo, senza fondo da dieci anni, dopo quasi 200 brani inediti stava iniziando a prosciugarsi. Avevano frammenti di canzoni oltre a qualche pezzo completo, perciò pensarono inizialmente di registrare quelle per riempire almeno una facciata dell’album entro giugno. Erano come un motore spento da mesi, borbotta e tossicchia prima di mettersi in moto: i Beatles arrivavano in ritardo alle sedute di registrazione, a volte non si presentavano proprio e insomma a inizio estate avevano inciso soltanto tre brani.
Alla fine, però, carburarono e partirono spediti. All’inizio di luglio iniziarono a lavorare su nuove composizioni con sempre maggiore convinzione e nell’arco di un mese le tracce pronte erano diciassette. Adesso dovevano solo decidere l’ordine della scaletta e trovare un nome all’album.
Lennon e McCartney, la luna e il sole dei Beatles, sempre più di rado ritrovavano il piacere di suonare insieme, lavorare in coppia sulla struttura dei pezzi. Capitava ogni tanto che uno dei due avesse un’idea sulla quale valeva la pena perdere tempo, come nel caso di The Ballad Of John And Yoko, dove Lennon si presentò entusiasta a casa del collega per chiedergli di registrarlo insieme e l’altro rispose contribuendo con il suo basso, la batteria e i controcanti.
Più spesso, invece, si detestavano esplicitamente. Perciò, per l’ultimo album, fecero come si fa nei divorzi: la separazione dei beni in questo caso divenne la separazione del lato a e del lato b. Lennon avrebbe deciso l’ordine della scaletta e McCartney avrebbe potuto inserire il famoso “long medley” nella seconda parte del disco, la suite di otto brani la cui fine si lega all’inizio del successivo ininterrottamente: un’altra delle innovazioni apportate dal gruppo nella storia della musica leggera.
Fu un capolavoro, ovviamente, nel quale potete ascoltare i Beatles nella più completa maturità come artisti. Si tratta infatti dell’affresco musicale più definito, ricco, particolareggiato e solare della loro carriera. Sembravano di nuovo un gruppo di quattro elementi, piuttosto che quattro solisti a turno supportati dagli altri: un effetto sorprendente, se si considera che insieme suonarono contemporaneamente soltanto le basi delle canzoni, per poi incidere singolarmente le voci e il resto degli strumenti.
L’album parte con Come Together, dove Lennon sibila ‘shoot me’ all’inizio di ogni strofa (per fare intendere di aver bisogno di una dose, ma significa anche ‘sparami’: inquietante e premonitore, se si pensa alla sua morte dell’8 dicembre 1980 per mano dello squilibrato Mark Chapman). Qui McCartney suona un fumoso e caratteristico assolo di organo. Poi John aggiunge al disco anche un pezzo estremo come I Want You (She’s So Heavy) tutto giocato sulla pentatonica minore del La. Si tratta di un refrain ossessivo di un testo di appena tre parole: ‘ti voglio disperatamente’. Riferito ovviamente a Yoko Ono, con i suoi 7’46’’ di lunghezza rimpiazza Hey Jude come brano più lungo nella discografia dei Beatles.
Because, invece, è una canzone ispirata al chiaro di luna di Beethoven: Lennon in gioventù aveva cantato Roll Over Beethoven di Chuck Berry che invitava la nuova generazione rock a calpestare la musica classica e ora, completando un complesso e precoce processo di maturazione artistico durato meno di otto anni, faceva della musica classica la propria musa. E al medley contribuì con Sun King (l’unico brano dei Beatles che racchiude nel testo alcune parole di maccheronico portoghese e inizia con il canto dei grilli), Mean Mister Mustard e Polythene Pam: due spaccati di ironia feroce sulla pudica società inglese.
Abbey Road, poi, è anche l’album in cui George Harrison esce finalmente dal suo cono d’ombra: Something è una ballata d’amore talmente bella e delicata che anche Frank Sinatra nel cantarla la presentò come ‘la più bella canzone sentimentale mai scritta da Lennon e McCartney’, sbagliandone l’intestazione ma lusingandolo con un complimento pregiato.
Quanto a Here Comes The Sun, l’avete sentita di recente come colonna sonora di uno spot d’una nota compagnia assicurativa: è un inno alla luce suonato su chitarra acustica che stupisce per la propria semplicità e il calore che trasmette. Oltre al solito impeccabile lavoro alla chitarra solista. Abbey Road è pure l’album in cui Ringo Starr dimostra che non è poi così scarso come batterista: alcune trovate sono geniali, dall’impostazione sulla grancassa di Sun King alla rullata in controtempo di Come Together. Ringo qui suona anche il primo e unico assolo di batteria all’interno di un brano dei Fab, in The End.
Ovviamente, infine, questo è l’album in cui McCartney srotola tutto il proprio genio creativo: da Oh Darling, il ruvido brano d’amore per cantare il quale provò tutte le mattine per un’intera settimana prima di iniziare le registrazioni e ancora oggi rimane uno dei brani più ostici da affrontare per i cantanti di mezzo mondo. A meno che non si abbassi la tonalità.
Poi c’è l’ingenua e macabra Maxwell Silver’s Hammer in cui uno studente di patafisica uccide con un martellone tutti quelli che incontra sulla propria strada, fino ovviamente alla suite del lato b: del medley sono sue la variegata You Never Give Me Your Money, pezzo in cui cita da lontano i problemi economici della Apple, l’autobiografica She Came In Through The Bathroom Window in cui suona anche una Stratocaster scampanellante, la ninna nanna Golden Slumbers, la preveggente Carry That Weight in cui prevede che quei quattro di Liverpool dovranno portare il peso di essere stati i Beatles ancora per ‘a long time’ e The End. Sono sue le ultime parole, un testamento pesante come un macigno, dell’ultimo album dei Beatles. ‘L’amore che prendi è uguale all’amore che ricevi’.
Un minuto prima, insieme a Lennon e Harrison si era diviso il più sorprendente assolo di chitarra tra tutti i dischi del gruppo. Un minuto dopo è suo anche un fingerpicking acustico che prende in giro la Regina e infatti si chiama Her Majesty: finisce per errore in fondo al disco in fase di assemblaggio dei pezzi. Quando se ne accorgono, i Beatles decidono di lasciarla lì e nasce la prima ghost track nella storia della musica.
Non resta che decidere il titolo e la copertina. Uno dei tecnici del suono della Emi, Geoff Emerick, era solito fumare sigarette di marca Everest. Mal Evans, il roadie del gruppo, propone che quello possa essere il nome dell’album e ‘quanto sarebbe bello se andassimo in Himalaya a scattare la foto di copertina’. John Lennon, che quando può partecipa il meno possibile a ogni questione che non riguardi la musica o Yoko Ono, risponde tagliente: ‘In Himalaya insieme a voi? Ma siete matti? Io al massimo posso accompagnarvi all’angolo della strada’. E’ abbastanza perché McCartney decida di andarci davvero, all’angolo della strada.
La mattina dell’8 agosto i quattro si ritrovano sulle strisce pedonali di Abbey Road a farsi fotografare da Ian Macmillan mentre attraversano la strada e un poliziotto complice blocca il traffico. Quasi misticamente, poche ore prima e dall’altra parte del mondo Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, venne uccisa dalla Famiglia di Charles Manson: per quello e i successivi delitti, il pazzo criminale citerà come fonte di ispirazione Helter Skelter e Piggies, due canzoni dei Beatles del White Album. E’ una triste coincidenza per una copertina che alimenta a dismisura il filone macabro del gruppo: la presunta morte di Paul McCartney.
I fautori del P.I.D. (Paul is dead, sostituito da un sosia nel 1966) ci trovano indizi a non finire: il mancino è l’unico nello scatto a camminare scalzo e fuori passo rispetto agli altri tre; regge una sigaretta con la mano destra invece che con la sinistra; l’abbigliamento dei Beatles somiglia a quello di un funerale; nella targa della Wolksvagen si legge ‘28IF’, cioè avrebbe avuto 28 anni se non fosse morto (in realtà in quei giorni McCartney ne compiva 27, ma significava che stava entrando nel ventottesimo anno di vita) e componendo al telefono gli altri numeri della targa avrebbe risposto una donna in grado di confermare la sua morte. Se ne potrebbero citare altre infinità. Come conseguenza naturale, l’album si chiamerà come quella strada alberata nel quartiere residenziale di St. John’s Wood. E dal momento dell’uscita del disco, il 25 settembre 1969, i residenti della zona imparano a rallentare davanti a quelle strisce ancora prima che il pedone abbia iniziato l’attraversamento: due su tre, è gente che lo fa per l’obiettivo di una macchina fotografica.
Abbey Road compie quarant’anni esatti in questi giorni. E’ l’album più completo, ricco, complesso, misterioso (con i suoi indizi in copertina), maturo e innovativo dei Beatles. Pensato e registrato da un gruppo praticamente già sciolto, Abbey Road riuscì comunque a stupire chi credeva che i quattro di Liverpool non potessero più produrre qualcosa di originale e inaspettato. Stupisce oggi, uscito in versione rimasterizzata insieme agli altri 12 album, risultando tra quelli dei Beatles il più venduto nelle classifiche americane. Riuscì perfino a rendere famose quelle sei strisce pedonali di vernice bianca, altrimenti destinate a rimanere anonime per l’eternità. Ancora oggi, questo disco fa frenare gli automobilisti londinesi con largo anticipo rispetto ai pedoni che vogliono attraversare. Potere del più incredibile gruppo della storia.