Quei fili che tengono unita l’esistenza di ognuno di noi

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Quei fili che tengono unita l’esistenza di ognuno di noi

Quei fili che tengono unita l’esistenza di ognuno di noi

17 Maggio 2009

I ricordi sono i fili che tengono unita la nostra esistenza, impedendole di diventare un mero coacervo di eventi indistinti. Occorre raggiungere una certa età per capirlo. Prima, quando si è giovani, i ricordi si depositano nella mente, senza assumere un peso rilevante nella condotta quotidiana. Troppo veloce il ritmo degli avvenimenti negli anni giovanili per indulgere in modo sistematico alla rievocazione. Eppure i ricordi hanno una loro consistenza ontologica impossibile da eliminare. Raggiunta la maturità, essi si fanno strada da soli e ci portano in direzioni spesso inattese.

Esistono ovviamente i diari, usati da chi ha per l’appunto paura di smarrire i momenti che rendono la vita di ciascuno di noi qualcosa di unico e irripetibile. Più di rado qualcuno decide a un certo punto di selezionare i ricordi secondo certi spunti tematici non necessariamente omogenei. Ma è noto che l’omogeneità è un concetto piuttosto personale, soprattutto quando ci si riferisce alle esperienze private. Deve averlo pensato anche Dino Cofrancesco scrivendo un volumetto appena pubblicato: Debiti. Percorsi tra storia e memoria (Edizioni Sapere, Padova, pp. 78, Euro 12).

Perché “debiti”, innanzitutto? L’autore lo chiarisce subito notando che si può provare riconoscenza non solo per persone che ci sono state particolarmente care, ma anche per oggetti (un vecchio sillabario, un quadro) o entità più indefinibili (la musica leggera, il cinema americano, la musica classica). Il professore universitario che sa scrivere bene facendosi capire da tutti ottiene ottimi risultati quando decide di “spendersi” sui giornali. Magari facendo arricciare il naso ai colleghi che tracciano un confine netto tra accademia e vita (e, spesso, proprio perché non sanno scrivere!). Cofrancesco si spende in questo senso da molto tempo, ritenendo giusto far giungere al grande pubblico gli echi delle discussioni accademiche.

Ma questo libro è diverso. Attraversato da una vena crepuscolare, da un filo appena accennato di nostalgia che permea ogni pagina, ci mostra il mondo dal punto di vista di chi scrive. Una mente al lavoro, insomma, che non scorda i temi prediletti di storia del pensiero politico filtrandoli però con elementi tipici della vita quotidiana. Di grandi studiosi come Anna Maria Battista e Mario Stoppino vengono ricordati i tratti colti soltanto da chi li conosceva molto bene. Della Battista la capacità di stupirsi dinanzi alla semplice immediatezza del vivere, alla “verginità” delle cose e dei sentimenti. Di Stoppino la felicità quasi infantile durante gli incontri con gli amici in pizzeria.

E come poteva mancare un intero capitolo – oltre a molte citazioni sparse negli altri – dedicato al Principe Antonio De Curtis? Chi frequenta Dino sa benissimo che, in qualsiasi contesto, prima o poi nella conversazione salterà fuori una citazione del grande Totò. Oggi fa forse meno impressione perché nel frattempo il comico napoletano è stato ampiamente rivalutato. Ma il nostro autore ne parlava – e parecchio – in tempi non sospetti, quando Totò veniva bollato come simbolo emblematico del qualunquismo italico. “Tornare a Totò, – scrive a p. 23 – dopo il secondo ’89, significa tornare al realismo, al senso della misura, al rispetto (quotidiano, senza solenni proclamazioni!) dell’altro, a quella tolleranza, radicata in un politeismo antico, che costituisce, da sempre, un antidoto efficace alle violenze delle guerre civili – da noi assai meno sanguinose che altrove, sia nel ’22 che nel ’45”.

E poi la musica leggera. Non solo, come qualcuno ha detto, vera colonna sonora delle nostre vite, ma anche “un genere di espressione artistica che va presa in seria e attenta considerazione in quanto forma immediata di stati della mente e di abitudini del cuore di quell’uomo della strada – appartenente a tutte le classi sociali – che la democrazia proclama sovrano” (p. 46). Qualche tempo fa dissi a Dino che a mio avviso “Que reste-t-il de nos amours?” è il pezzo più bello di Charles Trenet. Mi guardò perplesso: non era d’accordo. Ma dopo aver acquistato un CD con i capolavori di Trenet mi telefonò subito ammettendo che avevo ragione.

E, infatti, la canzone parla di amori passati e di foto ingiallite dal tempo. In sintonia con il tono crepuscolare e nostalgico che caratterizza il libro. Difficile, forse, assumere un tono diverso vivendo in un ambiente triste come quello dell’università di oggi. Ci salvano proprio i ricordi, specialmente se, come in questo caso, vengono donati al lettore con semplicità e delicatezza.