Quel sorpasso sulla “kamikaze road” che ha fatto scempio dei soldati italiani

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Quel sorpasso sulla “kamikaze road” che ha fatto scempio dei soldati italiani

18 Settembre 2009

Un’uscita come tante, in una mattina come tante, a Kabul. Un convoglio di mezzi blindati Lince viaggia su una delle strade più importanti della città. Esce dal Kaia, Kabul International Airport e si dirige ad Isaf HQ, il quartier generale della missione Isaf, nella blindatissima e centralissima “Green Zone” di Kabul. Un’auto, una Toyota Corolla, carica di 150 chili di esplosivo, sorpassa e si infila tra i due mezzi. Il kamikaze a bordo si fa esplodere. I due Lince vengono entrambi coinvolti. Rimane ucciso l’intero equipaggio del primo mezzo e il rallista del secondo. Gli altri quattro passeggeri del secondo mezzo riportano lievi ferite.

È il rischio più temuto dai militari italiani che ogni giorno percorrono queste strade. Mai seguendo lo stesso itinerario, per questioni di sicurezza. Quella su cui ieri sono morti i sei militari è la strada più diretta, e quindi più veloce, per raggiungere il centro di Kabul da Camp Invicta, la base che ospita i militari italiani, collocata nella periferia est della città, sulla Jalalabad Road, la Violet secondo gli standard Nato. È anche però quella che si cerca di percorrere solo quando è strettamente necessario, perché è considerata la più pericolosa. La chiamano “kamikaze road”, perché le sue  caratteristiche si prestano particolarmente a questo tipo di attentati: è asfaltata, è larga e offre quindi la possibilità di sorpassare agevolmente per allinearsi meglio ai mezzi in movimento. E molti degli attentati ai mezzi delle truppe Isaf si sono verificati proprio lungo questa strada.

Un evento imprevedibile e, forse, inevitabile. La versione “urbana” di quella “guerra asimmetrica” che oggi più che mai rappresenta il pericolo più insidioso per i militari in Afghanistan, fatta non di attacchi diretti, ma di autobombe e ordigni improvvisati piazzati e ben nascosti lungo i bordi delle strade.

I ragazzi conoscono bene il rischio a cui sono esposti ogni volta che escono dalla base. Basta osservarli e sentirli parlare tra loro: “attento a quell’auto”, “occhio a quella moto”, “lontano da quel carretto”, sono frasi che il capomacchina ripete in continuazione al conducente. Forse in modo superfluo, perché gli occhi di tutti sono costantemente puntati su qualunque cosa che, lungo la strada, attiri la loro attenzione. I ragazzi sanno perfettamente quali sono gli elementi che potrebbero identificare un mezzo pronto a esplodere: auto vecchia, con le sospensioni abbassate a causa del carico di esplosivo, ferma a bordo strada o che si avvicina in maniera “anomala” al convoglio in transito. Chi conduce il mezzo killer è un uomo, bel vestito, lavato e sbarbato: pronto al martirio. Più che ogni altra regola da manuale, però, è la sensibilità e l’esperienza di chi viaggia senza staccare gli occhi dalla strada che può salvare la vita.

E poi c’è il rallista, l’uomo che spunta dalla torretta del mezzo. Ampia visibilità a 360 gradi su tutto ciò che succede intorno al mezzo. Ma soprattutto, possibilità di “comunicare” con la popolazione civile. Possibilità di tenere lontane auto e persone, segnalando con le mani, la voce, o, se necessario, un minolux, un razzetto luminoso di segnalazione, o, durante la sera, un laser che indica, sull’asfalto, il limite invalicabile per i civili afghani che dovessero avvicinarsi troppo o troppo velocemente. Infine, come extrema ratio, se tutti gli altri metodi o gli avvertimenti non hanno sortito effetti, possibilità di sparare colpi di avvertimento o di autodifesa in caso di “minaccia reale e imminente”.

La popolazione civile lo sa. Sa come deve comportarsi in strada quando stanno passando mezzi della coalizione. È stata avvertita e istruita tramite quei canali di comunicazione che, nel rispetto delle gerarchie tipiche di una società tribale quale è quella afghana, vanno da pari a pari: da comandante a capovillaggio, o “elder”. Alcuni, impassibili, seguono ciò che gli è stato indicato di fare senza discutere, altri accostano e poi sporgono la testa per guardare con ammirazione questa sorta di “alieni” bardati che sfrecciano per le strade. Altri ancora non nascondono un moto di impazienza. Si lamentano, danno qualche colpo di clacson. Ma in pochi si permettono di contravvenire alle regole avventurandosi in manovre azzardate troppo vicine ai convogli.

Una consapevolezza costante, quella di convivere con un rischio tanto concreto quanto imprevedibile. Un pensiero che accompagna i ragazzi dal momento in cui escono dalla base fino a quello in cui rientrano a fine operazione. E che li spinge anche a scherza con la morte. Ma solo quando, ormai, al sicuro, sano che possono sputare fuori tutta la tensione che li ha accompagnati magari per ore. Senza mollare mai il suo morso. 

Chissà quante volte i ragazzi che ogni giorno percorrono le strade di Kabul saranno riusciti a evitare di rimanere vittime di attacchi kamikaze, grazie all’esperienza, la sensibilità e l’addestramento. Ma la statistica, in questi casi, non conta. E le polemiche, su equipaggiamento, preparazione e sicurezza, si ripresentano nella loro cadenzata ritualità.