Stabilità e competenza per costruire il futuro (di G.Quagliariello e P.Romani)

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Stabilità e competenza per costruire il futuro (di G.Quagliariello e P.Romani)

Stabilità e competenza per costruire il futuro (di G.Quagliariello e P.Romani)

La pandemia ha segnato uno spartiacque nella vicenda del nostro Paese. Ha comportato un extra indebitamento mostruoso, che non è un regalo ma una cambiale che andrà onorata. E bisogna essere fin da ora consapevoli che l’ombrello internazionale che ci ha consentito operazioni fino a un anno fa inimmaginabili prima o poi si chiuderà, lasciandoci di fronte al bilancio di cosa avremo o non avremo saputo realizzare in questa congiuntura tanto drammatica quanto fuori dall’ordinario.

Di fronte a uno scenario di questa portata, che chiama in causa il destino dei prossimi decenni, la tregua fattiva che si è stabilita con l’avvento del governo Draghi deve essere considerata come un tempo di riclassificazione della lotta politica, per la quale l’esperienza del Covid segnerà una profonda cesura con il passato destinata a cambiare attori, contenuti e paradigmi. E un primo effetto che questo periodo di sospensione ha già determinato è stato quello di mostrare dopo lungo tempo la differenza tra una politica concentrata sul riscontro immediato e una politica tarata su esigenze che si proiettino oltre il limitato orizzonte di un giudizio contingente.

Se questo effetto si consoliderà, ciò potrà anche aiutare la politica a darsi regole per recuperare il gap di rappresentanza determinatosi già prima pandemia. Oltre a consentire una vasta accessibilità e interconnessione, infatti, i nuovi linguaggi e le tempistiche dettate dai social media hanno contribuito spesso a esacerbare il dibattito, a banalizzare i contenuti, a estremizzare le posizioni a volte anche a scapito della coerenza, con il risultato di svalutare la competenza e di rendere l’elettorato sempre più liquido, ingrossando così la fetta degli indecisi. La radicalizzazione e l’eccessiva semplificazione del messaggio politico portano infatti alla marginalizzazione di sensibilità culturali e sociali che non si riconoscono più nel sistema politico-istituzionale. E invece la straordinaria congiuntura che stiamo vivendo e le sfide che siamo chiamati a fronteggiare impongono la valorizzazione di tali risorse.

E’ su questo sfondo che si innesta la partita per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Da ormai quasi un decennio – da quando cioè le elezioni del 2013 hanno archiviato il bipolarismo imperfetto che aveva segnato i vent’anni precedenti – il presidente della Repubblica, proprio per la mancanza di stabili equilibri di sistema, rappresenta di fatto il perno attorno al quale quest’ultimo ruota e si definisce. Ne è prova ciò che accadde sette anni fa quando l’allora premier Renzi, all’apice del potere e della popolarità, decretò l’inizio della fine di una stagione mettendo in campo una maggioranza presidenziale diversa da quella che sosteneva il governo e differente anche rispetto a quella impegnata sulle riforme costituzionali. Fu in quel momento che la maionese impazzì.

Oggi bisognerebbe cercare di non ripetere lo stesso errore. Al di là del poco appassionante gioco del toto-nomi, serve un Capo dello Stato che sia sintonizzato sulle frequenze di questa nuova stagione della lotta politica. Senza artifizi retorici che invertano il paradigma o piattaforme programmatiche di riforme del sistema attorno alle quali ritagliare su misura l’abito presidenziale e individuare il suo indossatore: al contrario, è proprio dall’elezione del Presidente della Repubblica che può partire una nuova stagione di riforme che contribuisca a riclassificare forze e culture politiche, a trovare un nuovo modo di dare stabilità alle istituzioni, a rivedere il meccanismo di formazione dei governi. E anche la legge elettorale dovrebbe rientrare in questo quadro e seguire questo approccio con l’obiettivo, auspicabilmente condiviso dal più ampio arco parlamentare possibile, di rispecchiare la volontà popolare e contribuire a sua volta a garantire stabilità.

Di questa stabilità l’Italia ha un disperato bisogno, innanzi tutto per superare il traguardo del 2026 – orizzonte temporale del Recovery Fund – evitando che una volta chiuso l’ombrello di cui alle prime righe non inizino a piovere sassi sulla nostra testa. Lo scoglio però non può essere superato eludendo le scadenze o considerandole alla stregua di partite politiche ordinarie, ma compiendo scelte che portino a un nuovo assetto del sistema e facendo in modo che questo assetto non sia una costruzione artificiale ma un vero propulsore in grado di dare forza, nerbo e sostanza a quella cultura di governo che l’ultima stagione ha dimostrato essere la vera necessità del Paese.

Serve insomma un principio di corresponsabilità istituzionale, che aiuti il Paese a ripartire e le forze politiche a rinvigorire le proprie culture di riferimento, in un quadro che è oggettivamente più complesso di quello che le due coalizioni plausibilmente in competizione nel prossimo appuntamento elettorale vorrebbero rappresentare. La responsabilità va infatti coniugata con l’affidabilità che l’avvento di Mario Draghi ha fatto guadagnare all’Italia agli occhi delle istituzioni sovranazionali e dei nostri maggiori partner europei. Quella che dovremo disegnare sarà forse la Terza Repubblica, ma ciò che è certo è che da oggi al 2026 tutta la classe politica ha da fronteggiare la più grande sfida dal secondo dopoguerra.

(dal Corriere della Sera)