Tremonti sbaglia a mandare in pensione la vecchia Finanziaria
23 Settembre 2009
di redazione
Le leggende metropolitane sono sempre pericolose e spesso devastanti. Prendono spunto da alcuni elementi veri e concreti e costruiscono “verità virtuali” lontanissime dalla realtà. Una di queste leggende costruite negli ultimi 15 anni è il famoso “assalto alla diligenza” che si realizzava durante l’esame parlamentare della legge finanziaria.
E’ vero che i parlamentari di maggioranza e di opposizione presentavano all’epoca della prima Repubblica un migliaio di emendamenti (“ecco l’assalto alla diligenza”) ma in tutte le democrazie del mondo la legge di bilancio è l’occasione per un confronto-scontro tra gli interessi legittimi presenti nella società. Interessi territoriali o professionali, industriali o sindacali e via di questo passo ritrovano spazio nelle voci dei gruppi parlamentari o dei singoli deputati e senatori. E’ la politica, nel senso alto del termine, che deve poi farsi carico di ricomporre interessi, esigenze, vocazioni territoriali e quant’altro in un progetto in cui la maggior parte del Paese vi si possa riconoscere e trasformarsi quindi nella legislazione della finanziaria o del bilancio.
Chi, come alcuni filoni culturali dentro la maggioranza e dentro l’opposizione, ritiene letale il confronto-scontro nelle aule del parlamento, lo bolla con disprezzo utilizzando, appunto, il termine offensivo dell’assalto alla diligenza.
Il filone cosiddetto liberaldemocratico è quello più incline al disprezzo riprendendo una vocazione antica del notabilato liberale che ancora oggi soffre il suffragio universale introdotto subito dopo la seconda guerra mondiale. Chi, come noi, della democrazia ne fa una religione civile, ritiene quel confronto-scontro nelle aule del parlamento il sale della vita democratica del paese.
E veniamo alla legge finanziaria. Vi sono due scuole di pensiero. La prima, nella quale mi riconosco, è quella di uno strumento, la finanziaria, dentro il quale possano trovar posto tutti gli elementi utili per la manovra economica che è sempre stata triennale senza offesa per Tremonti. Tutt’al più tale strumento poteva essere accompagnato da un decreto legge-fiscale per la naturale immediatezza di applicazione che le misure fiscali devono avere. In questa opzione diventa, però, essenziale il ruolo del presidente della commissione bilancio che ha il potere di espungere dalla legge finanziaria presentata dal governo quelle norme ritenute materia estranea alla manovra di bilancio e di dichiarare inammissibili anche tutti gli emendamenti che volessero introdurre, per l’appunto, elementi estranei alla natura stessa della legge finanziaria. Questo accadeva nel passato mentre negli ultimi anni “ la diga” della presidenza della commissione bilancio ha ceduto sotto i colpi di una cultura che riteneva il parlamento un orpello che intralciava l’azione di governo che, invece, diventava il “dominus” assoluto dell’attività legislativa.
C’è, invece, l’altra scuola di pensiero, di cui Tremonti e prima ancora Padoa- Schioppa sono stati gli epigoni, secondo la quale doveva prevalere l’ "ipse dixit" del governo e per esso del ministro dell’economia. E se, per caso, la realtà parlamentare era diversa, peggio per la realtà e quindi via libera alla decretazione di urgenza e al voto di fiducia mai applicato nel passato.
In questa visione tutta italiana del pensiero liberaldemocratico, al posto della finanziaria, strumento unico e onnicomprensivo, si è attuato lo spacchettamento della manovra.
Tanto per fare esempi concreti, la finanziaria del giugno 2008 è stata accompagnata da ben 8 provvedimenti tra decreti legge ( 6) e disegni di legge (2) che hanno impiegato quasi un anno per essere tutti approvati mentre la vecchia legge finanziaria veniva approvata in 90 giorni anche se con scontri cruenti. In quegli 8 provvedimenti c’è di tutto e di più ( per rimanere nel lessico c’è stato l’assalto “alle diligenze”) tanto che alla fine dell’esame parlamentare il governo ha sempre fatto uno o due maxi emendamenti sui quali ha posto il voto di fiducia.
Quali delle due scuole di pensiero è più aderente alla democrazia, alla rapidità della legislazione e al “respingimento” di quegli assalti che, seppur legittimi, potevano stravolgere la manovra di bilancio? Uno sguardo ai risultati.
Negli ultimi 17 anni il nostro debito pubblico è passato dal 98% del Pil al 31/12/1991 al 115% del Pil che raggiungeremmo a fine anno dopo aver venduto aziende e beni pubblici per oltre 160 miliardi di euro mentre dal 1995 l’Italia è la cenerentola d’Europa per tasso di crescita.
L’unico momento in cui il deficit annuale è diminuito è stato quando nel quadriennio ‘96-‘99 i tassi internazionali di interesse erano crollati riducendo così di oltre 5 punti il rapporto deficit/Pil.
Adesso, nonostante i tassi di interesse siano ancora una volta crollati, il nostro deficit è alle stelle (5%), la crescita langue e languirà anche nei prossimi anni e il debito nel 2010 sfiorerà il 120%. Il dibattito è aperto.