Con il passare dei giorni – e siamo quasi a una settimana dal fattaccio – continua ad estendersi il fiasco politico scatenato dal rilascio “per motivi compassionevoli” del terrorista libico Abdulbaset al-Megrahi da parte del governo scozzese. Non solo per l’agguerrito indipendentista Alex Salmond e il suo ministro della Giustizia, l’avvocato ultra-liberal Kenny MacAskill – sotto attacco diretto del capo della CIA Robert Mueller (“un conforto per i terroristi dappertutto”) e persino di Barack Obama in persona (“totalmente inammissibile”) –, che hanno visto la reputazione del loro piccolo Paese, storicamente molto favorevole negli Stati Uniti, scendere in una forte crisi d’immagine, ma in maniera più defilata, e forse ancora più grave, per il governo laburista britannico, diretto (ormai solo per modo di dire, dicono i più critici analisti politici londinesi) dal premier, anch’egli di chiare origini scozzesi, Gordon Brown.
L’impatto immediato della decisione di MacAskill e Salmond di rilasciare Al-Megrahi, dopo aver scontato solo otto anni della sentenza di ergastolo per aver causato la strage di Lockerbie nel 1988, quando il Boeing del volo 103 della PanAm esplose sopra l’omonimo villaggio scozzese, è stato eclatante, soprattutto per le reazioni furibonde delle famiglie delle vittime americane, ed ha messo subito in grossa crisi la stabilità e persino la ragion d’essere della “Scottish Executive”: il 70 per cento degli scozzesi crede che l’immagine internazionale del loro Paese ne abbia sofferto “seriamente”, mentre un ampio 30 per cento dell’elettorato richiede senza tanta compassione le immediate dimissioni del Guardiasigilli di Edimburgo; e dietro le forti polemiche sulla competenza stessa del governo autonomo di Edimburgo di “saper amministrare meglio gli affari internazionali degli scozzesi”, la percentuale di coloro che appaiono favorevoli all’indipendenza totale, e quindi alla fuoriuscita dal Regno Unito, è calata in una settimana in modo repentino dal 36 per cento al 28 per cento.
Ma la rabbia degli elettori britannici in genere – e quelli propriamente inglesi sono l’85 per cento del totale del regno – è ora diretta sopratutto nei confronti del premier britannico, che ha passato più di una settimana senza aprire bocca sulla questione, causando una serie di reazioni popolari e mediatiche dal sarcastico all’apoplettico. Da oltre due anni al timone del governo del regno, dopo aver passato oltre un decennio cercando di spodestare l’amico-rivale Tony Blair, che riteneva un suo collega ‘inferiore’, Gordon Brown si è dimostrato ancora una volta incapace di gestire la contingenza politica con neanche un minimo di savoir faire – chiudendosi dietro un curioso mutismo sul caso Al-Megrahi, esattamente come ha fatto in passato su decine di argomenti importanti.
Lo stesso Gordon Brown, che oltre a dimostrare metodicamente il suo costante disprezzo per "il superficiale" Tony Blair durante il suo fortunato decennio al Tesoro britannico, non ha mai mancato di criticare ex cattedra i suoi colleghi europei – compreso diversi ministri della finanza italiani, of course – per la loro mancata preparazione economica e politica (fortunato perché l’economia britannica allora sembrava andare benissimo), ma che una volta salito allo scranno più alto, il tanto bramato premierato, si è rivelato assolutamente inadatto al ruolo, un fatto dimostrato in molti modi diversi.
I suoi strani silenzi – o addirittura le assenze – nei momenti topici quando serviva un commento sul merito autorevole (o come minimo una presa di posizione rituale per ribadire la posizione del suo governo ), sono diventati una delle maggiori caratteristiche del suo breve, e in fin di conti tragico, premierato. Una caratteristica che molti commentatori hanno paragonato nel corso degli anni ad uno dei protagonisti felini delle poesie umoristiche del grande poeta anglo-americano Thomas Stearns Eliot (che hanno ispirato il celebre musical di Andrew Lloyd-Webber, "Cats"), un gatto scozzese, appunto, di nome Macavity, che riesce sempre a sgattaiolare da qualsiasi incidente in cui viene coinvolto.
Questa volta il Times, che per tradizione secolare non risparmia mai le sensibilità del premier di passaggio (o di qualche leader straniero, se è per questo) quando si tratta di emanare una sentenza, ha sfottuto pesantemente Brown, paragonandolo al grande mimo francese Marcel Marceau, per il suo ostentato silenzio sul caso, in netto contrasto rispetto alle melense dichiarazioni di dubbiosa sincerità in certe recenti occasioni dal sapore nazionalpopolare, dalla morte di Michael Jackson al ricovero in ospedale per stress di Susan Boyle, la cantante amatoriale brutta ma della voce angelica che aveva emozionato la nazione in un reality talent show in tv.
E nella triste ballata di MacAskill e di Al-Megrahi, Mr Macavity Brown di Downing Street ha provato ancora una volta ad assentarsi dal caso, facendo sempre negare ai vari portavoce di Downing Street che durante le sue discussioni al tu per tu con il Colonello Ghedaffi a l’Aquila durante il G8 “ci fosse un accordo in questo senso”, insistendo con un mantra ripetitivo e poco convincente che “Il governo britannico non c’entra più nelle decisioni del ministero della Giustizia scozzese”.
E sulla carta, questa chiosa è teoricamente corretta: a prescindere dell’introduzione dell’autonomia politica scozzese con la Devolution Act in 2000, la giurisdizione della Scozia è sempre stata una cosa distinta da quella inglese e gallese, così come il sistema della pubblica istruzione e della chiesa di stato: le radici e le tradizioni sono rimaste sempre diverse, e difese dal più grande vicino meridionale con gelosia e veemenza. La decisione "on compassionate grounds" del ministro della giustizia scozzese MacAskill si è basata interamente su una lettura della legislazione autoctona in materia, senza riferimento agli accordi internazionali (e quindi in sintonia con Londra) recentemente stabiliti in modo bilaterale con Tripoli sulla "Prisoner Transfer Agreement" (PTA), ossia lo scambio di prigionieri per finire di scontare le rispettive sentenze nelle carceri nazionali.
Quello che Brown non sembra aver capito è che la ragion di stato, nonché una semplice intelligenza politica contrastavano con una lettura semplice e letterale degli accordi sulla Devolution fra Londra ed Edimburgo, e quindi il pilatesco lavarsi le mani del premier britannico per Brown si è rivelato una tragica esposizione della sua inadeguatezza politica, non solo nei confronti della dignità dei suoi connazionali che avevano perso i loro cari nella sciagura di Lockerbie, ma sopratutto un’assurda mancanza di ragionamento diplomatico nei confronti degli alleati della NATO, in primissimo posto gli Stati Uniti.
Per Brown, la (ulteriore) perdita di autorevolezza agli occhi di Washington è particolarmente amareggiante, dal momento che il premier credeva di aver stabilito una linea di contatto privilegiata con il nuovo presidente, che andasse oltre la tradizionale "Special relationship" di contatti intimi e ravvicinati fra le maggiori due democrazie dell’Anglosfera. Se Brown sperava di mietere un posto di riguardo alla prossima assise del G20, che si terrà a metà settembre negli Stati Uniti sotto la presidenza di Barack Obama, magari come riconoscimento della buona riuscita dell’emergency summit del giugno scorso del G20 a Londra, adesso se lo può scordare. Proprio in un momento politicamente delicato per il giovane presidente americano, mentre il suo ambizioso progetto sulla sanità nazionale sembra in grande ambasce, il giudizio negativo dimostrato dai più stretti e fidi alleati (che sia da parte di Edimburgo o Londra, questo non conta granché a Washington) riguardo a uno dei dossier più critici per ogni amministrazione – il terrorismo, e la gestione della risposta al terrorismo – gli ha procurato un gran fastidio.
Ma oltre il danno, ora arriva la beffa: con il passare delle ore emergono nuove rivelazioni sulle presunte trattative fra Londra (e non Edimburgo) e Tripoli. Dopo una settimana fitta di notizie trapelate e mezze parole su presunti accordi inconfessabili raggiunti fra le varie parti in causa, domenica scorsa con la consueta solerzia indagatoria il Sunday Times ha pubblicato gli atti governativi che dimostrano come davvero “this was all about oil” (c’entrava il petrolio, l’accusa usata in modo ossessivo durante l’invasione dell’Iraq nel 2003 ). Già da diversi anni, il governo laburista di Londra stava trattando con Tripoli per assicurarsi nuovi diritti per le esplorazioni di British Petroleum, la nota azienda britannica petrolifera, in cambio di certi prigionieri libici tenuti sottochiave nelle carceri britanniche. Compreso il pluricitato Al-Megrahi.
Che dietro le quinte la realpolitik incida nelle grandi trattative fra gli Stati non dovrebbe sorprendere nessuno, specialmente quando si tratta di garantire i rifornimenti di carburante in un periodo molto teso, nonché facilitare nuove occasioni di lavoro per un importante azienda nazionale, ma allora gli analisti londinesi si chiedono: chi glielo ha fatto fare a nascondere o a negare l’evidenza, quando era probabile che prima o poi la notizia sarebbe saltata fuori? Ancora una volta, si tratta del cattivo giudizio politico dimostrato dal premier britannico che, anche davanti all’evidenza finalmente esposta, probabilmente manterrà uno dei suoi silenzi da Marcel Marceau, o dal celebre gatto eliotiano Macavity.
Ma non è solo Brown – e il governo indipendentista scozzese – ad aver fatto brutta figura davanti all’opinione pubblica mondiale, e alla Casa Bianca, ma anche alcuni dei suoi ministri più importanti. In primo luogo il sempre-presente e mondanissimo Lord Peter Mandelson, formalmente ministro del Commercio ma a tutti gli effetti vice premier e principale consigliere del goffo Brown, che negli ultimi giorni aveva negato con veemenza che ci fossero stati negoziati “sotto il tavolo” durante le vacanze estive a Corfù fra di lui e Saif Gheddafi, figlio del rais libico. In secondo luogo l’attuale ministro degli esteri David Miliband (che come Brown non ha detto una parola sull’intero affaire) e il suo predecessore Jack Straw (ora alla Giustizia) che aveva pubblicamente criticato il suo omologo scozzese per aver visitato Al-Megrahi in carcere in Scozia prima del rilascio di quest’ultimo, insinuando che si sarebbe “comportato molto diversamente” se fosse stato il ministro responsabile. Ora le carte pubblicate dal Sunday Times rivelano che fu proprio Straw a scrivere a MacAskill nel 2007, cercando di favorire al collega scozzese la tesi che fosse “nei supremi interessi del Regno Unito fa partire Abdel Baset Al-Megrahi per la Libia” per poter garantire l’accordo da 18 miliardi di euro della BP con Tripoli, originalmente negoziato nel 2005, negli ultimi mesi del terzo e ultimo governo di Tony Blair. “Prisoners for Oil”, insomma, sancito da Londra, e imposto ad Edimburgo.
Dulcis in fundo: oggi veniamo a sapere che il giovane e influente delfino del Rais libico ha deciso di trasferire la base del suo crescente impero mediatico proprio a Londra, dove da qualche settimana ha comprato una lussuosa villa da 13 milioni di euro nell’elegante quartiere di Hampstead, forse con l’intenzione di influenzare meglio e più da vicino la politica estera britannica. Il 37enne secondogenito e successore in pectore di Muammar Gheddaffi, il cui gruppo mediatico Al Mutawassit spera di diventare un rivale degno di Al Jazeerah, aveva accompagnato Al-Megrahi di persona a Tripoli dieci giorni fa, dove ad aspettarli in aeroporto c’era un festeggiamento che il governo di Londra aveva espressamente richiesto di non inscenare al governo libico. E tutto questo mentre Al-Megrahi (che sarebbe in fin di vita per un tumore, ma ora che è tornato in patria sembra molto energico, in tempo per i festeggiamenti per i 40 anni della Rivoluzione verde di Gheddaffi) ha dichiarato, bontà sua, che è “giunta l’ora” per una “vera indagine ufficiale per scoprire i responsabili dell’attentato” del 1998 che uccise 270 persone, e che lui “sarebbe più che disponibile a contribuire con quello che sa alle indagini degli investigatori britannici”.