Un nuovo “surge” per l’Iraq

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Un nuovo “surge” per l’Iraq

Un nuovo “surge” per l’Iraq

21 Agosto 2014

C’era attesa per le parole del premier Matteo Renzi in Iraq, pronunciate come presidente di turno della Ue. Un’attesa determinata dalla debolezza europea nel prendere decisioni univoche sulle materie di politica estera, come pure dalla frattura nei rapporti transatlantici apertasi all’epoca della Seconda Guerra in Iraq. Infine, e per venire a noi, dal voto delle commissioni parlamentari sugli aiuti umanitari e soprattutto gli armamenti leggeri da fornire ai "peshmerga" curdi.  

Il voto favorevole nelle commissioni c’è stato, in linea con quanto deciso a Bruxelles. Renzi ha confermato l’invio di armi ai curdi, su cui c’è un sostanziale accordo tra Francia, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Repubblica Ceca e la stessa Germania. Il ministro degli esteri Mogherini l’ha giudicata una mossa "indispensabile".  

Cosa ha detto Renzi tra Baghdad ed Erbil? Che l’Europa non è "solo spread e vincoli" ma difende "una certa idea di mondo e di dignità dell’uomo". Che la Ue non "volterà le spalle di fronte ai massacri" di cristiani, yazidi, sciiti e turcomanni. Che dobbiamo evitare nuove Srebenica, vanno aiutati i profughi a tornare nelle loro case, stanno arrivando gli aiuti umanitari. Infine che "l’integrità della regione e dell’Iraq è fondamentale per la stabilità di tutta l’area", per cui serve una "strategia chiara per far uscire l’Iraq da una situazione di violenza".  

Certamente il richiamo ai valori dell’universalismo democratico rappresenta una buona premessa per ogni strategia che vada oltre la tradizionale indolenza della Ue. Come pure il richiamo all’integrità dei confini iracheni è un messaggio rivolto alle nuove leadership di Baghdad: archiviate la brutalità, l’inettitudine e il settarismo mostrati dallo sciita Al Maliki (scaricato ormai dallo stesso Iran), recuperando un briciolo di coesione politica tra maggioranza sunnita (più volte tradita ed esclusa dal processo di state-building), minoranza sciita (su cui ha puntato tutto ed erroneamente l’America) e i curdi (che si trovano a combattere da soli contro i jihadisti dopo aver coltivato il loro autonomismo).   

In realtà con il formarsi dello Stato Islamico l’integrità territoriale irachena è già compromessa. L’Isis, che attualmente è il gruppo terrorista più ricco al mondo, controlla un’area dai confini evaporati che va dalla Siria all’Iraq, larga più della Giordania. Per quanto il tentativo di prendere il controllo di risorse strategiche come acqua e petrolio per il momento venga rintuzzato dai raid aerei americani, i jihadisti stanno depredando tutto ciò che incontrano sul loro cammino, dighe, pozzi petroliferi, banca di Mosul, armi americane date all’esercito iracheno.

Il numero dei fascisti islamici si ingrossa grazie all’arrivo dei volontari ‘occidentali’ che combattono in Siria e per l’internazionale del terrore. Hanno un capo, al Baghdadi, che ha esperienza come comandante militare. Godono dell’appoggio della rete wahhabita che fa capo alle centrali saudite e del Golfo, nel grande gioco della "guerra mondiale" islamica.  

Pensare allora che gli Usa e soprattutto l’Europa si accontentino del minimo sindacale – gli aiuti umanitari, le armi leggere, l’intelligence, la pur utile pressione politico-diplomatica sul governo di Baghdad – è irrealistico, significa rimanere inerti davanti allo sgozzamento di Foley. Le decisioni prese fino adesso da Obama, che a differenza della Libia non ha aspettato l’intervento europeo per ordinare i raid aerei, bastano solo al contenimento del Califfato, sempre che l’esercito iracheno faccia la sua parte.   

La verità è che serve un intervento armato di terra. Non centinaia di migliaia di soldati come in passato ma dieci, quindicimila uomini, tra consiglieri militari, truppe speciali, aviotrasporte, equamente suddivisi tra peshmerga, esercito nazionale iracheno, Free Army siriano, in modo da ricompattare il fronte che per adesso contrasta l’avanzata islamista. Fino ad ora però non abbiamo sentito dichiarazioni del genere dai leader occidentali. Non da Obama, che l’Isis sfida proprio sul terreno della Guerra al Terrore, dimenticata troppo ingenerosamente dal presidente democratico. Né dal tradizionale alleato degli Usa, il premier inglese David Cameron, né dal presidente di turno Matteo Renzi.

E’ vero che l’impazzimento sunnita generato dagli errori seguiti alla prima fase dell’intervento americano contro Saddam Hussein, come pure l’endemico scontro di natura tribale fra le forze politiche irachene sono questioni che fanno dubitare sulla utilità di un nuovo intervento militare. Ma ricordiamoci come cambiarono, in meglio, le cose con il "surge" americano del 2007-2008. Le violenze diminuirono in modo verticale, la politica irachena riprese a funzionare, stabilizzando la situazione almeno fino al 2010.

L’anno dopo Obama commise l’errore di portare via le truppe lasciando campo libero al Dawa di Al Maliki, che abbiamo visto pavoneggiarsi molto con Renzi.  Da allora, il Governo iracheno ha ripreso a vittimizzare  i sunniti: attivisti e giornalisti arrestati, ufficiali dell’esercito e funzionari pubblici perseguitati, il vicepremier al Hashemi spinto all’esilio in Turchia, il governatore della banca centrale e il capo dei servizi segreti costretti alle di dimissioni, il ministro dell’economia sfuggito a un attentato…

I sunniti "moderati" vengono spinti pur controvoglia nelle braccia dell’Isis. Eppure basterebbe poco per strappare ai jihadisti le loro presunte costituency. L’Isis non è una forza popolare, gli iracheni anche di fede sunnita non vogliono sentirsi dire come devono vivere: non accetteranno di smettere di bere alcolici e di fumare, oppure lo scempio del loro millenario patrimonio culturale ed archeologico, perché glielo impone una visione medievale del Corano. Se lo faranno, significherà che lo Scontro di Civiltà non si è mai concluso, anzi è ricominciato su basi ancora più pericolose del passato.

Per cui va bene legittimare e rafforzare il premier incaricato dell’Irak Al Abadi o fare pressione diplomatica sui sauditi e i Paesi del Golfo, vanno bene le armi ai curdi, ma come si può pensare di ricostituire la integrità territoriale irachena eliminando il nuovo califfato "talebano" con la sola forza del soft power? Limitandosi alle belle parole dell’umanitarismo o alla difesa meschina dei propri interessi commerciali? Dove sono finiti i "volenterosi" che premevano e ottennero di rovesciare Gheddafi?

Obama ha detto che uno Stato islamico non ha posto nel Ventunesimo secolo. Se gli Usa e l’Europa non interverranno in modo massiccio in Irak avremo dato in franchising la difesa dei valori democratici alle Quds Force. E la "Terza guerra mondiale" di cui ha parlato il Papa, la guerra nell’Islam, continuerà a lungo. Rischiando davvero di diventare infinita.